A dodici anni la professoressa di musica ci porta per la prima (e ultima) volta in sala musica e ci dice, uno alla volta, di fare la scala, con la mano destra. Io aspetto impaziente, provo per il pianoforte un'attrazione istintiva. Avevo giocato una volta con il vecchio pianoforte del nonno, avevo cinque anni, forse. Poi basta.
Quando tocca a me faccio quello che mi ha chiesto, la scala. E' la cosa più naturale del mondo. La professoressa mi guarda e mi dice: Tu suoni già il pianoforte, vero?
No, rispondo io, è la prima volta che ci metto le mani sopra.
Fine.
Passano gli anni, è il 1997, ho venticinque anni e scrivo la tesi di laurea, sono tornata a casa dei miei e mia mamma mi dice che, se voglio, posso prendere lezioni di piano dal maestro giù a scuola, fa lezioni private. Ok, dico io.
Mi siedo emozionata, il maestro è di fianco a me e mi dice cosa fare. "Tu hai già suonato, vero?"
No, rispondo io, per la seconda volta.
E per sei mesi studiai con lui, arrivando a metà circa del Beyer. Poi fine. "Dovresti continuare", disse; ma la vita mi ha una volta ancora allontanato dal piano.
E' il 2015 circa, in casa c'è una vecchia tastiera elettrica, compro il Beyer e, pazientemente, ricomincio, da sola.
L'anno scorso, a Natale, Lele mi regala il pianoforte, aggiudicandosi la vetta del miglior regalo da qui a nei secoli dei secoli Amen.
E quest'anno, spartiti. E suono. E mi accorgo del fatto che sì, forse il dono c'è, ma poi, senza lavoro, il dono non è niente.
E il lavoro che richiede la musica è duro, durissimo, e forse è proprio quello che mi aggancia ogni volta, come una dipendenza, perché dopo gli sbagli, lo sforzo, la frustrazione, il tempo dedicato, una cosa è certa, che la musica in qualche modo e quando vuole lei, ti ripaga sempre.
Alle medie qui della zona inizierà presto un corso di musica per adulti, gratuito.
Sono già lì.
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