sabato 28 novembre 2009

Sono solo coincidenze.

Quando abitavo con mia mamma e mio babbo, tutti i gatti della via e forse anche del quartiere, a giudicare dalla quantità, venivano ad abitare nel giardino di casa nostra. E anche i figli delle gatte femmine, e poi i figli dei figli, e i figli dei figli dei figli, i nipoti e i pronipoti e i propropronipoti (nel giro di un anno massimo due, ovvio), tutti nel nostro giardino. E siccome alla fine succede che una casa piena di gatti è per tutta la via e per tutto il quartiere e per tutta la città la "casa dei gatti", i gatti continuavano ad aumentare. In primavera le gatte andavano in calore, venivano i calori anche a mia mamma, a me veniva l'asma e mia sorella se li sarebbe portati tutti nel letto.
Secondo me arrivavano anche gatti da posti lontanissimi; si era sparsa la voce. Succede così, la gente dice: "portali alla casa dei gatti, in via così e così che c'è una casa piena di gatti". E la gente di notte arriva e ti scarica in giardino l'ultima nidiata della personal-gatta.
Non ho mai capito perchè una casa piena di gatti diventa automaticamente il gattile di zona. Non l'ho mai capito, ma è una verità. Mia mamma si incazzava tutte le volte ma tanto i gatti si moltiplicavano lo stesso. Se ti fai una fama, fai fatica a liberartene.

E insomma è succeso che quando siamo andati ad abitare nell'ultima casa, anche lì il giardino era il "giardino dei gatti" già da lunga tradizione (vedi il fato), ma per fortuna lo era di più il giardino della signora che ci viveva davanti e quindi tutti i gatti di tutte le razze e stazze finivano da lei.
Un giorno però è piombata nel nostro giardino una gatta piccola bianca e nera che era una bellezza. E se lo dico io, che era una bellezza, è vero, altrimenti non lo direi, perchè io, i gatti, non li sopporto.
(Ma se c'è un gruppo di persone e un gatto, vedi che il gatto viene a strofinarsi da me. Consapevolmente e senza speranze, eppure viene da me a fare meeeeooo e a strisciarmi la gamba e a rotearsi in tutto quel balletto con la schiena per farsi accarezzare. Non mi incantano, lo sanno, ma vengono da me. Anche questa è una verità). Io, a questa gatta, per puro dispetto sadico e mal sopportazione da sfinimento della razza felina, l'ho chiamata Paolo. Quando tornavo a casa da scuola e la vedevo in giardino, le dicevo con distacco Ciao Paolo, e godevo dentro. E poi mi son sentita anche una persona molto divertente e burlona perchè succedeva che quando mi chiedevano Come si chiama il tuo gatto, io dicevo è una femmina e loro mi dicevano che bella, come si chiama, io dicevo Paolo e loro ridevano.

Ora.

Torno a casa con un libro nuovo. Godo: divano, copertina, figli sistemati, tempo, me lo leggo.

Ad un certo punto (e porcaccia, mi succede eh, mica una volta, non si contano 'ste coincidenze), leggo questo:

"Che io corro al telefono, schivando la gatta, che la mia gatta Paolo prende paura, tutte le volte che squilla il telefono, corro al telefono, rispondo Pronto![...]"

Ora.

Ma come cazzo.

Ma dico io.

Ma io lo so che le coincidenze, cioè, c'è tutta una teoria che alcuni dicono che non esitono, io mi sono veramente rotta, io ho una mente fragile su 'ste cose, mi ci vuole poco. Io, adesso, lo so, passo la serata sotto la coperta in ginocchio col sedere per aria, nel bozzolo col dito in bocca a arrotolarmi i capelli, a cercare teorie, tiro in ballo la metafisica e la fisica quantistica, mi ci vorrebbe un santone, ma perchè, perchè, devo smetterla di cercare di capire perchè, perchè a qualcun altro è venuto in mente di chiamare una gatta Paolo. Può succedere, succede a un sacco di gente, succede, no? certo che succede, non è così strano, ci saranno un casino di gatte femmine che si chiamano Paolo, mica solo a me viene in mente una roba così di chiamare una gatta Paolo, figuriamoci, è che non lo vengo a sapere, ma è ricorrentissimo, solo che io non lo vengo a sapere, no? vero?

Ma perchè a me?
Io sono fragile.
Perchè-succede-sempre-a-me?

martedì 24 novembre 2009

Che il cuore è nella pancia

Vedere il mondo con gli occhi di un bambino è possibile solo se lo sei, un bambino, perché il bambino vede certe cose per la prima volta, il suo sguardo è vergine, non ha ancora attaccato etichette a tutte le cose, ché ci mette un po', ad attaccare le etichette. Quindi si fa presto a dire "Guarda il mondo con gli occhi di un bambino". Non si può. Si fa per dire.

Però l'altra sera stavo tornando a casa e c'era una di quelle belle nebbie fitte. Per strada c'ero solo io.
C'è un cavalcavia che devo fare, lo faccio centomila volte al giorno; e c'era una fila di puntini tondi luminosi, uno dietro l'altro, allineati nel mezzo del cielo, creavano un disegno sfocato. Me li sono goduti, erano bellissimi, non mi sono neanche chiesta cosa fossero, palloni luminosi sfocati nel mezzo del cielo; erano belli e basta, erano allineati e facevano una curva in su e poi una in giù e si perdevano dentro la nebbia, correvano fin là in fondo. E a guardarli mi è salita quell'eccitazione che è bella, paurosa, uhauahahua, così, da spalancare gli occhi, da spalancare la bocca. Che il cuore è nella pancia.

E allora mi sono avvicinata piano piano. Erano i lampioni. Erano, semplicemente, i lampioni. E' perché non si vedeva la strada, è perchè si vedevano solo loro, è per quello che non li ho capiti subito. E' per quello che me li sono goduti, così, senza chiedermi perché e percome, a occhi sgranati, come fa un bambino quando vede le cose per la prima volta, ancora senza etichette sopra, da solo con il suo incanto, con il suo stupore, con quella paura che è bella e che gli sale su dalla pancia.

lunedì 23 novembre 2009

Vorrei fotografare tutto

Torno a casa da scuola in macchina e guardo fuori. Sono felice, l'autunno mi piace. Vorrei fotografare tutto. Il signore con la tuta blu che carica sul camion le foglie secche; la donna in bicicletta con le calze di lana, col fazzoletto in testa e la borsina di plastica della spesa nel manubrio; quella vecchia fabbrica rossa svuotata di tutto che le sono rimaste in piedi solo le mura alte col tetto a punta, e sono tutte rotte, ci sono cresciute dentro anche le erbacce.

Mi piace, oggi, l'autunno. Ci sono tutti i colori, ci sono gli alberi che si perdono lungo l'argine, ci sono le case sparse qua e là mezze diroccate e a pezzi e senza le finestre e con tutta l'edera che s'arrampica fuori; quelle che a guardarle penso che mi viene voglia di fermarmi e entrare dentro e scoprire che ci abitava una strega e poi scappare via piena di paura; ci sono le gru, c'è il cielo grigio. Ci sono due alberi nel mezzo di un campo, sono vicini. Uno è grande e uno più piccolino. Si tengono compagnia e quando c'è il vento si fanno i dispetti, ma si vogliono bene. Sono uno maschio e l'altro femmina, e guardano la strada e le macchine, e non si annoiano mai. C'è l'uccello, sempre lo stesso e sempre nello stesso punto, che è in aria e sbatte le ali guardando giù. Tutte le volte mi chiedo cosa guarda. Sta lì per un sacco di tempo. Io corro veloce, ma lo so che lui sta lì parecchio a sbattere le ali e a guardar giù.

Là, in quel campo là, qualcuno deve averci svuotato una casa, ci sono delle robe bianche di ceramica rotte, vecchie, buttate per terra, sono dei vecchi cessi di ceramica, dei water, tutti accatastati, sembra che abbiano fatto un volo da lassù, dall'ultimo piano del palazzo. Fotograferei anche quelli. Poi, a guardarli, buttati lì così, si vede che sono cessi che li hanno usati e adesso non servono più, mi fanno un certo non so ché, mi viene in mente che hanno fatto la fine di quelle robe che non servono più e allora qualcuno le butta dalla finestra e poi ciao, basta, tanti saluti.

Vabbè, oggi sono felice, è bello l'autunno, è bello il cielo tutto grigio e lungo fino in fondo alla campagna, il campo grande e gli alberi spogli in fila sopra al fosso.
Mi piace abitare qui.

Vorrei fotografare tutto, ché tanto lo so che il paesaggio cambia e quando sarò grande non ci sarà più, non sarà più così, sarà tutt'un altro, me lo dice sempre il nonno che una volta non era così; e allora quando anche questo diventerà 'una volta' non sarà più così ma sarà tutt'un altro, sarà tutto diverso da adesso.

Ma non ce l'ho la macchina fotografica.

Va bene, fa lo stesso, non importa.

Tanto io lo fotografo dentro; perchè così, dentro, non si sciupa mai.

sabato 21 novembre 2009

Io


Io
che non sono mai morta
sono nata tre volte

venerdì 20 novembre 2009

Stran ieri

La mediatrice culturale è arrivata in orario. Adesso parla con la mamma di una mia alunna. E' bellissimo sentirle parlare in questa lingua a me completamente sconosciuta. Ha un suono molto piacevole da ascoltare: è dolce ma ci sono anche suoni gutturali forti, soprattutto quando il discorso si fa accalorato, o quando parla intenerita della sua bimba e racconta qualche episodio a casa, o quando la imita. E poi noto che c'è una parola, sempre la stessa, che si ripete all'inizio di ogni frase. Penso che sia un intercalare di questa mamma, lo fa anche quando mi parla nel suo stentato italiano, adesso credo che la capirò di più. Credo anche di aver capito come si dice maestra, mi sforzo di seguire il loro discorso. Conosco bene questa mamma e qualcosa, davvero, credo di capirlo. Ad esempio mi sembra di capire che "giovane", o "piccola", sia una parola simile all'inglese "young". E ho anche capito che c'è una parola, "libertà", che detta vicina al nome di una persona vuole significare che a questa persona piace sentirsi libera. Nemmeno la traduttrice riesce a comprendere fino in fondo, forse dal contesto di tutto il discorso sfugge la traduzione; deve essere davvero complessa, come lingua (io però ho capito benissimo: a nessun bambino di tre anni piace rientrare nelle regole della scuola).

Ogni tanto, quando non si capiscono per via della pronuncia, scrivono. Ed è ancora più bello. I segni di questa lingua sono affascinanti, non l'avevo mai vista scrivere dal vivo. Se non fosse che credo davvero che sia difficilissima, mi verrebbe voglia di impararla, di saperla parlare, di saperla scrivere.
La mamma mi chiede informazioni sulla sua bimba a scuola, soprattutto vuole sapere se gioca con gli altri bambini. Le racconto che sì, al contrario dei primi giorni, ora la bambina comunica e gioca con alcuni amici che preferisce (i bambini di tre anni si capiscono sempre tra di loro, credo che sia per via del fatto che loro si ascoltano davvero). Insomma, le racconto un episodio nel quale la sua bimba, vedendo un'altra bimba piangere (piangeva perchè un compagno, per prendere un libro, l'aveva letteralmente travolta), le si era avvicinata e le aveva detto, con la testa un po' inclinata per guardarla meglio: "Mamma?", e dopo avermela indicata perchè mi prendessi cura di lei, le aveva fatto una carezza. La mamma sorride.

A questo punto la mediatrice culturale mi fa una domanda; mi chiede se la bambina che piangeva è straniera.
Lì per lì non capisco la domanda e gliela faccio ripetere. Sì, vuole proprio sapere se l'altra bimba è straniera. Ci devo pensare un po'. Giuro. Nel senso che No, non è straniera, è nata in Italia tre anni fa. Però forse lei non vuole sapere questo. Per motivi a me sconosciuti lei vuole sapere se la famiglia della bambina è straniera. No, cioè, che ne so, mh, ma in che senso "straniera"? No, rispondo, credo di no. Ma cosa vuole sapere, veramente? Però la famiglia in questione proviene da un altro paese, dico, è facile riconoscerlo dai tratti somatici. Io non so da quanto tempo siano in Italia, l'italiano è una lingua che conoscono molto bene e anche la bambina lo comprende bene. Ma tanto vedo che la cosa non è importante e infatti la discussione prosegue da dove era rimasta.

Non sapevo dare una risposta. Soprattutto non riuscivo a capire a cosa le servisse tale informazione. Ancora me lo chiedo.
Straniero.
Mah.

Io so che finché non entro in relazione con qualcuno, con i mezzi che ho a disposizione, son tutti stranieri, per me. E, a volte, capita che straniera sia la persona che credevo di conoscere di più. E per fortuna, perchè si cambia. E spesso succede che mi ritrovo straniera a me stessa, pure, scoprendomi diversa da come pensavo di essere. Quelli sono i momenti più belli, i momenti nei quali mi rendo conto di essere viva, e di pulsare, e di essere intelligente. Ma questo è un altro post.

domenica 15 novembre 2009

Speriamo che non piova

L'ultima volta che sono andata dal dentista, mentre quell'uomo con tutti quegli attrezzi faceva quel che doveva fare, era tutto un Apra Chiuda Apra Chiuda. E io aprichiudiaprichiudi. Solo che ogni volta si sentivano dei rumorini, una volta stock, un'altra cricricri, e poi stockcricricri n'altra volta. Allora il mio dentista, che è uno bravo e che si preoccupa tanto per me, mi chiesto se la mia mandibola fa così spesso, e io gli ho detto che Beh sì ogni tanto e lui allora mi ha detto Stia attenta, se va avanti così bisogna fare qualcosa. Ah sì? perchè? Ma no, dài, non è niente in fondo... (ci provavo anche, io, a minimizzare, pigra dentro che già mi vedevo nello sbattimento di dover porre in qualche modo rimedio).
Eh, non è vero che non è niente.
Ma cosa potrà mai succedere?
Che un giorno lei sbadiglia e le resta la bocca aperta.
Aperta che cioè non riesco più a chiuderla?
Aperta. Stop. Bloccata.

Ok, ok, ho pensato, allora devo provvedere. Non girerò mai più senza macchina fotografica, ché se succede devo assolutamente immortalare la scena prima che mi ricoverino per rimediare all'increscioso fatto.

venerdì 13 novembre 2009

Urca urca sbirulero

Ieri sono stata ad un corso di formazione tenuto da Gabriele Boselli (Ispettore scolastico della regione Emilia Romagna). Ha parlato dell'Essenzialità e ha usato parole bellissime che potrei anche citare ma sarebbe lunghetta. Per farla breve, ha parlato della differenza tra essere meri insegnanti (erogatori di una prestazione) e Maestri (che fanno dono di sè). Ha parlato di insegnamento come dono (come vocazione ricevuta); ha parlato di passione, di amore per il lavoro di insegnante, di essere capaci di divertirsi; ha parlato della scuola come luogo di vita, come luogo di "attrazione" e non di "spinta" verso la conoscenza, nel quale emerge il bisogno di una creatura vivente - l'insegnante e l'alunno- di essere se stessa e di vivere in maniera autentica. Vivere, soprattutto. Ha parlato del bello dell'inatteso, dell'aprire al nuovo, dell'avventurarsi assieme nelle tenebre, di affiancare all'assodato il dubbio. Ha parlato della differenza tra complicato (sistema sofisticato e/o intricato ma dal comportamento prevedibile, come ad esempio un orologio) e complesso (sistema dal comportamento non prevedibile che sfugge ad ogni tentativo di riduzione -pena il fare grandi macelli- come ad esempio è il contesto scolastico).

Ha parlato tanto, ha parlato bene (è sempre un piacere stare ad ascoltarlo).
Poi ha parlato anche degli scenari scolastici che divengono in Italia progressivamente più difficili (alla scuola viene destinato meno del 3% del pil). Ha detto che continueranno i tagli e che alla fine, taglia taglia, ne resterà solo uno, l'highlander. ahah (abbiamo anche riso). Il maestro unico, appunto. Ha detto che le commissioni pedagogiche del governo stanno lavorando al Piano Programmatico (quello che avevamo è scaduto) e che si lavora verso il contenimento della discesa qualitativa causato dallo scenario bla bla (la complessissima teoria dell'essenzialità, nata per far fronte ad una emergenza, nata per difesa, nata per salvaguardare la qualità scolastica).

In macchina, tornando a casa, ho pensato a tre cose:
1. sì, sono un'insegnante che tende a tale complessità e me la caverò bene (ho avuto il dono, sono tra i prediletti);
2. se però le cose nella scuola non funzionano bene, agli occhi della cittadinanza illuminata dal faro delle tv, la colpa sarà sempre e comunque nostra;
3. ok, ok, mi rimboccherò le maniche, tanto ho capito, h-o c-a-p-i-t-o: non ci sono più i soldi nemmeno per la vaselina.
Aiha
(Ma che bello, però, oh! io sono tra i prediletti, io ho il dono).

Essenzialità
Essenzialità è un'idea cardinale nella tradizione filosofica e, più recentemente, nella teoria della complessità. E' teoresi comune sia alle Indicazioni del 2004 che a quelle del 2007 ed è l'alternativa alla mera e riduttiva semplificazione. Essenziale nella scuola non è l'acquisizione di competenze ma di una pura, indifferenziata, aprente capacità di conoscere. Essenziale è ciò che invita a ulteriorità. Essenza dell'essenziale è l'amore.
Gabriele Boselli

Urca urca sbirulero
(ma anche sti cazzi però)

giovedì 12 novembre 2009

Siamo diversi, vedi?

Siamo diversi, vedi? Non siamo tutti uguali, no no, decisamente no. Io, ad esempio, amo i ragni. E a casa mia non ce ne sono più e questa cosa mi preoccupa anche un po'. Ma no, mi dice la signora con cui lavoro, adesso non è la stagione dei ragni. E io che nemmeno sapevo che esistesse la stagione dei ragni. Comunque a me piacciono, i ragni, ad altri fanno schifo, qualcuno li teme e a qualcun altro sono totalmente indifferenti.

E poi c'è mia nonna. Quando da piccole le dicevamo Nonna guarda un ragno, lei lo prendeva con le mani, al ragno, e strizt, lo stritolava. Con una mano sola. Fine, stritolato. Ma anche quelli grossi eh, quelli neri e pelosi, quelli con la croce gialla sopra la schiena. Quelli che dopo, la notte, pensavi che i suoi parenti venivano nel letto a vendicarsi.

E poi c'era Efrem, il mio vicino di casa, che mangiava le ragnatele per fare schifo alle bambine. E le bambine dicevano Aaaaaaaaaaaaaah, che schifo! E lo amavano. Ogni leccata, bam, un'innamorata. Lo amavamo tutte, Efrem. Io avevo otto anni e anche lui aveva otto anni e aveva anche un fratello, ma suo fratello era già un uomo, aveva dodici anni e i segni sulla faccia perchè suo padre gli dava con la cinghia. Era già un uomo lui, aveva bruciato il diario in classe e allora girava per la città invece di andare a scuola, perchè per una settimana doveva stare a casa. E io non ho mai capito perchè uno che la fa grossa poi per punizione sta a casa da scuola. Ma per lui forse era vero che era una punizione stare a casa.
E insomma Efrem che amavamo di più solo perchè non aveva ancora dodici anni e non era ancora un uomo, mangiava le ragnatele per fare schifo alle bambine, mentre suo fratello bruciava i diari e altra roba. Tipo una volta si è dato fuoco a una scarpa. Efrem gli ha detto Adesso il papà lo senti. Lui, che era già un uomo, lo ha guardato e ha fatto spallucce. Poi ha tirato su il moccolo col naso in maniera molto adulta guardandoci e facendo gli occhi piccoli.
Siamo diversi, vedi? uno i ragni li ama, l'altro li schiaccia, l'altro si mangia le ragnatele.

Allora ieri, quando ho visto questo cartello: Acquario, Cani, Gatti, Rettili. Zoo. 100 m a sn, ho pensato che c'è veramente gente che compra un rettile. Certo, ho pensato, andare a caccia di lucertole a quarant'anni non sta bene, allora uno se lo compra, tipo, un serpente, e se lo porta a casa. Poi al bar dice alla bella di turno Vieni a vedere il mio rettilone?
Siamo diversi, vedi? che magari lei ci va, a vedere il suo rettilone, e in cuor suo spera anche, magari, che lui si mangi le ragnatele.