mercoledì 29 dicembre 2010

Sempre bello

- Buongiorno! Signora ***?
- mh mh
- la chiamo per esporle le nuove offerte di ***, come mi era stata detto di fare qualche settimana fa
- le passo subito mio marito...

mano sulla cornetta
C'è la tipa di *** che ti vuole raccontare tutte le nuove offerte.
Dille che adesso non posso.

- dice che non può venire, che ha da fare.
- allora richiamo, va bene tra un 'oretta?

mano sulla cornetta
Dice che richiama tra un 'oretta.
Non posso neanche tra un'oretta.

- dice che non può neanche tra un'oretta.
- ah, capisco. Allora quando può?

mano sulla cornetta
Dice: quando puoi?
Nell'anno nuovo.

- dice: "nell'anno nuovo"
- ah, quindi va bene anche, tipo, per la Pentecoste...
- la Pentecoste VA BENISSIMO!
- signora d'accordo, la saluto
- saluti a lei, e tanti auguri.

Ho anche sorriso, veramente, ma lei non poteva vedermi.

Auguri a tutti quelli che lavorano per *** e anche per +++ e anche per ^^^ e insomma a tutti quelli che devono chiamare nelle case per lavoro, e che di sentirli son felici solo i vecchietti che ti raccontano TUTTA la loro vita, la vita dei figli, dei vicini e dei parenti lontani, che poi metton su delle telenovele pazzesche, e poi non puoi stare senza sapere come finisce, se il vecchio è morto o se alla fine quei due si son lasciati; e che alla fine ti salutano dicendo: signorina è stato bello parlare con lei, richiami presto che poi le dico come è andata a finire, eh!

lunedì 20 dicembre 2010

Tecnicismi

Mi chiamano da scuola, sono a casa perché ho il turno delle dieci, ho il phon in una mano, i capelli arrotolati sulla spazzola nell'altra mano e la cornetta del telefono nella terza mano.
E' la mia collega. Mi dice C'è il tecnico del computer, io non so bene cosa dirgli, te lo passo.
Passa passa.

Il computer della scuola aveva una malattia molto terribile, grave e sicuramente rara. Lo dico perché schiacciavo il bottone, lo accendevo, si accendeva, e poi la freccettina cominciava a fare tutto un balletto, sembrava come se gli fosse preso il ballo di S. Vito; poi la appoggiavo sopra una cartella e quando ci cliccavo sopra, il computer faceva Blurp, diventava tutto blu, poi tornava all'inizio e accedi, diceva. Accedi pure, ma la freccetta faceva il suo balletto e via di clic, e via di blurp. Io avevo anche provato a spegnere, due settimane prima, e a riaccendere, trucco da vecchia canaglia imparato dalle vecchie canaglie, che a volte le macchine son strane, basta spegnere e riaccendere, dice, o riavviare. Ma niente, stesso ballo di S. Vito. Avevo anche provato, a mani congiunte occhi chiusi e preghiera intima tra me e lui, a distanza di una settimana, a riaccendere. Niente. Allora avevo pensato che il computer si fosse preso per cause x una malattia gravissima, di quelle che mettono ko le banche mondiali con tutti i milioni e milioni e i dati e i casini mondiali.
Chiamiamo il tecnico, non c'è altra soluzione. Cioè, prima chiamiamo la segretaria della direzione che poi chiama il tecnico. Ma cos'ha? Mi chiede lei. Eh, non lo so, sicuramente un virus pazzesco, ma pazzesco proprio, guarda, non sai, gli toccherà sicuramente portarselo via.
- Sì, però, ragazze... Ma hai provato a riaccendere?
- Ma certo! Niente, ti dico, sta volta s'è preso qualcosa di grosso.
- Ma come, se non avete la rete?
- Ma sai, le chiavette...
- Ma non dovete usare le chiavette!
- Eh sì, ma figurati, come fai a copiare i documenti (ecceteraeccetera)...
- Va bene, vi mando IL TECNICO.

Ora:
il tecnico, io lo so, è una razza tutta particolare. Al tecnico succede che va negli uffici del Comune perchè lo chiamano che la stampante è rotta, non va, e lui arriva e dice: Vede questo filo? Si chiama A l i m e n t a z i o n e (scandisce, io lo so che scandisce), e va attaccata alla presa. Poi la stampante va.
Il tecnico poi esce dal Comune e sbuffa. O impreca. O ride. Oppure tutto. Di sicuro, ma di sicuro, scuote la testa.

Ecco, io ho sempre timore reverenziale per il tecnico del computer. Lui, il tecnico, è addirittura capace di domare la macchina senza il mouse, vi rendete conto? SENZA IL MOUSE. Tictictaciticaticaiitcai e il compute si inginocchia. L'ho visto, giuro. S'inginocchia.
Quindi, dato il mio timore reverenziale, chiamo solo se le ho provate tutte, se proprio è grave. Io non voglio che scrolli le spalle.
Allora, con la cornetta nella terza mano e le altre due mani impegnate tra fono e spazzola (devo aver studiato al circo in una qualche vita precedente), dico:

- Salve, sono la maestra. Ha guardato il computer? Lo porta via, vero? Deve essere gravissimo, lo so.
- Veramente va. L'ho acceso, e va.

Ecco, con la spazzola e i capelli attorcigliati e il phon nella mano, sento che mi sale da dentro una roba, un misto di rabbia dolore vergogna.

- Come sarebbe: "va"?
- Va. Ma cosa aveva?
- Dunque...

E lì, dentro di me, me lo raffiguro benissimo mentre esce dal cancello e scrolla la testa con una grande delusione dentro e disistima per tutta la categoria insegnante completa. Però io adesso vorrei capire una cosa: i computer sono bastardi?

Una volta, mi ricordo, il grande avrà avuto sei mesi di vita, fuori faceva un freddo pinguino artico, erano le due di una banale notte di gennaio e questo qui inizia a strillare come un pazzo. Non vuole tetta, niente tetta. Canta, culla, massaggia, canta canta, massaggia, culla, scuoti (anche vigorosamente) e piangi (assieme). Niente. Urla da ossesso indemoniato. Ha la febbre? Macché. Ruttino? macchè. Cacca nel pannolino? Tampoco.
Andiamo all'ospedale, avrà sicuramente qualcosa di gravissimo, senti come urla. Pronti. Freddo pinguino, vestiti vestilo incappuccialo incopertalo (operazioni nient'affatto facili durante una crisi d'indemoniamento). Via per la strada verso l'ospedale. Spera prega prega spera che i semafori siano verdi. Non c'è un cane. Strada liscia. PER FORZA! SONO LE DUE di un banale giorno della settimana di gennaio e c'è un freddo pinguino! Chi vuoi che ci sia, se non due poveri giovani sfigati con un demone attorciliato dentro strati e strati di coperta?
E poi, davanti al cancello dell'ospedale, magicamente, lui smette. Fine. Silenzio. Pace. Dorme. DORME. Ma si può sapere che cacchio ci avevi da urlare tanto che adesso dormi?
Con l'occasione, alle tre di notte nel freddo pinguino artico, quella notte ci siamo fatti un romantico giretto in macchina al porto, canale destro, canale sinistro, zio canale che sonno e che freddo torniamo a casa.

E così fa il computer. Con te non va, arriva il tecnico e Plin! Va. Perfetamente.

- Guardi, io, nel senso, ecco, la freccetta... quando la puntavo in una cartella, per esempio, faceva come tutto un balletto (terminologia tecnica), poi cliccavo su per aprirla, e il tutto faceva blup (altra terminologia tecnica), e tornava automaticamente alla pagina iniziale; insomma, non mi faceva fare niente (altro termine tecnico). Ho anche pensato che, forse, un bambino per giocare mentre non vedevo avesse staccato il filo del mouse, non vorrei averla fatta venire per il filo del...
- Ma la freccia la muoveva?
- Sìsì, solo che poi ballava tutta...
- Allora non era il filo del mouse. Ma poi si ricorda altro?
- Ecco, sì, che poi per la disperazione (approccio di risoluzione tecnica da manuale) spegnevo di cattiveria dal bottone e usciva una finestra che diceva "blabla.exe" (e qui siamo all'ultima frontiera del tecnicismo più spinto). E lì io ho pensato che si fosse preso un virus gravissimo e ho chiamato in direzione.
- Credo che sia andata così: (non ci provo nemmeno a ripetere quello che mi ha detto, ma in sostanza credo volesse dire che il computer doveva finire di fare qualcosa, che era rimasto in coda, quindi non riusciva a ripartire. Quando lui lo ha acceso, dopo diverso tempo che non veniva più acceso, questo qualcosa è finito e allora è ripartito bene).
- Quindi non mi odia per averla fatta venire?
- Nono, passavo comunque per l'altra scuola.
- Senta, ma non può essere che la causa stia nel fatto che a volte noi maestre ci dimentichiamo di spegnere il computer, poi la schermata diventa nera (termine tecnico) e prima di andare via ci dimentichiamo che è acceso e spegnamo direttamente dalla ciabatta?
- Succede questo?
- Eh, sì, a volte può succedere, sa, con i turni...
(credo di aver sentito come un lontano urlo di dolore provenire dalla cornetta)
- Ecco, questo dovreste evitarlo, fa molto male al computer.

Orbene, siamo al lieto fine,
adesso il computer va. Andiamo d'accordo, lo spegnamo passando dal via e non finiamo più per stare ferme un giro in prigione. Soprattutto, però, siamo simpatiche al tecnico. Me lo sento che non ha scrollato le spalle e che è andato via quasi intenerito.
(O meglio, mi piace tanto tanto credere che sia così).

mercoledì 15 dicembre 2010

Fidarsi

Come cittadina italiana che vive questi eventi politici incredibili, sento di essere entrata in un capitolo memorabile della storia del mio paese. O forse è meglio dire il contrario.

- Perchè guarda che le storie per i picciriddi, alla fine...
- Cioè?
- Metti quella bambinella col cappottino rosso.
- Eh.
- Ecco: ha preso la scorciatoia, no? Il lupo le ha detto Prendi la scorciatoia, ha fatto così con la zampa, le ha detto: vai, vai di là, che fai prima, e lei ha preso la scorciatoia, ha voluto arrivare prima dalla nonna e ha seguito il consiglio del lupo cattivo, capito? E vedi come è finita. Magnata la nonna e magnata lei.
- Sì, ma poi è arrivato il cacciatore.
- Certo, è una storia per picciriddi. A prendere le scorciatoie che ti indica il lupo, però, non so se la fai sempre franca. Non so se arriva sempre il cacciatore, poi. E intanto il lupo si ingrassa, se magna te e se magna la nonna, che porella, è pure malata e non c'entra niente.

Perché prendere le scorciatoie che ti indica il lupo, quelle scorciatoie lì son delle trappole; ti può andare bene una volta, due, ma non va bene sempre.

Certo, quella lì è una bambina e mi dirai che è stata ingenua, che la fiaba ha ben altri risvolti psicologici e pedagogici e bla bla relativi alla crescita, certo.
Ad una persona grande però si fa più fatica a imputare ingenuità e a vederla come vittima di un inganno. Infatti è il caso di chiamarla furbizia. E la furbzia non è indice di intelligenza quasi mai. E in queso caso mi scoccia da matti perché c'è sempre qualcun altro che paga. La nonna: cosa c'entra la nonna, che è pure malata?
Mica si può difendere, la nonna. Non può alzarsi dal letto, affrontare il lupo che le si para davanti. Il lupo è lupo, deve mangiare per sopravvivere. Il lupo fa così, deve sopravvivere e si studia la caccia.
A volte arriva il cacciatore, a volte no, a volte il lupo se magna pure quello.

Allora se penso che ci son furbi nel mondo che seguono i consigli dei lupi per fare meno fatica e prendono le scorciatoie per ottenere qualcosa, e che alla fine poi ci rimette la nonna, ah, niente, quando penso così, mi viene dentro una roba che penso che più che il lupo, prima di tutto mi sta sulle balle cappuccetto rosso.

mercoledì 8 dicembre 2010

Venezia parte secondua

Organizzo io, e questa volta niente cialtronate.
Mattina presto, si parte in orario, tanto che nonostante la congiura bolognese riusciamo ad arrivare a Padova, a vedere la mostra, a mangiucchiare qualcosa e ad essere in stazione con, addirittura, largo anticipo: dobbiamo prendere al volo il treno degli splendidi che son partiti da Vicenza. Direzione: Venezia. Ore: 14.
Appuntamento preso, è tutto ok.
Van, guarda il binario del treno numero 5493, mi raccomando, un locale, direzione Venezia. Binario 11. Sicuro? Sì. Ok.

Allora: ci siamo io, il largo anticipo, il Van, il trolley, la borsettina, il berrettino, la sua ziga accesa e poi spenta, io seduta nella panca di ghiaccio e lui in piedi, solo noi due, alle ore 13,50 del pomeriggio, noi soli che aspettiamo il treno numero 5493 al binario 11. Precisione contro cialtronismo. Basta, da oggi la mia vita è cambiata. Niente cazzate, niente improvvisazioni. Sono stata brava, vero Van? Sì tesoro. Grazie. Ok.
Mi sento talmente in gara contro il mio cialtronismo (Lia uno, cialtronismo zero, autostima mille) che sono anche seduta tutta precisa con la schiena dritta, le gambine chiuse, le mani sulla borsa. Sembro un po' mia nonna. Gli splendidi saranno fieri di me. Non sono più quella che arriva quattro ore di ritardo.

Sms della splendida: siamo in testa, praticamente guidiamo noi. Risposta mia (un po' tronfia): Siamo già sul binario. Quando arrivate, affacciati.
(Sono felice, sono stata bravissima. Ho un sorriso e una felicità in faccia che faccio anche un po' pena. O fastidio. Dipende.).

Aspettiamo e ad un certo punto, nel silenzio del vuoto della solitudine del binario numero 11, sento un urlo provenire dal binario 8. Incredibile: il mio nome. Incredibile, ma quella che urla sembra la splendida. Incredibile: è la splendida. Che urla. Il nostro nome. Affacciata a un treno. Del binario 8, però. E che dice: ma cosa fai seduta lìììììì?

Io mi ricordo solo che urlando Non ce la faremo maiiiiiiiiiii, afferro il trolley che se ne stava elegantemente posizionato di fianco a me, e corro, corro,
e che poi volo giù dalle scale del binario 11,
e che poi devo salire le altre scale del binario 8,
e che poi affronto la gente che scende da quelle scale, e che sembra un milione di esseri umani,
e che poi corro come salmone che risale contro corrente per deporre le uova,
e che poi eroica riesco a lottare contro il destino che mi rende sempre comunque cialtrona,
e che poi, finalmente, con un salto aggraziatissimo, riesco a salire sul treno.

Sudata come una capra, mi accorgo che dell'aplombe di mia nonna non ce n'è più nemmeno l'ombra, morto lungo la risalita salmonica contro la cascata umana.

Quando lo splendido ci viene in contro, in treno, io riesco solo a dire, affranta e a spalle calate:
Te lo giuro, non è colpa mia.

(continua)
(forse)

lunedì 6 dicembre 2010

Crescere

Alla fin fine, quando il piccolo ribelle ne combina una, pur arrabbiandomi non posso non guardarlo con tenerezza, perché lo ammiro.
Nello stesso tempo devo dargli la regola, devo mettere un paletto.

Se non lo facessi, gli scipperei uno dei suoi più importanti diritti: la trasgressione.

giovedì 2 dicembre 2010

Dialoghi tra adulti

D. tira i capelli all'amica perché vuole la stessa bambola. Una piange (e non molla la bambola manco minacciata con una pistola), e l'altra ha il muso.
Bisogna che faccio qualcosa, penso.
Mi getto tra le contendenti.

- Se vuoi una bambolina, ce ne sono altre. Adesso però chiedile scusa, le hai fatto male.
- Non sono capace.

Neanch'io, ho pensato guardando in su.
Poi abbiamo deciso che entro l'anno impariamo a farlo, entrambe.

martedì 30 novembre 2010

"Ed eccomi finalmente in Venezia" (parte una, forse unica)

Con sto post si perde un sacco di tempo inutile. Astenersi gente responsabile e in gamba.

Un giorno nel mezzo della settimana scorsa che volge alla fine (anzi, ne è già iniziata una nuova, ohibò); insomma, in questo giorno in mezzo alla settimana, forse era mercoledì, suona il telefono.
Vado a rispondere, è mia mamma.
Mi siedo comodamente sulla sedia a dondolo posta vicino alla mensola dove si trova l'apparecchio telecom, quello bianco col filo, quello che ti dà la telecom e che paghi ogni mese un fracco di soldi di affitto, prendo la cornetta, dico Pronto, ciao mamma come stai come state come va? bene? benebene, anche noi, tutti noi, bene noi.
Dopodiché, subitaneamente, le racconto che io e suo genero, sabato e domenica, andremo a Venezia, e che loro sono la coppia vincitrice della gara d'appalto "Un fine settimana con i tuoi adorati nipoti". Nel fare questo mio lunghissimo monologo, peraltro unico della discusisone, distrattamente estraggo dalla libreria un libro vecchio, ma vecchio nel senso vero, vecchio nel senso di vecchissimo, trovato l'estate scorsa in una bancarella in centro a 2,50 euro, con le pagine marroncine talmente ruvide e pesanti che si fa anche fatica a girarle. Risale al 1939 e fu di una certa Franca Caimmi; c'è il suo nome scritto a penna, sopra; e c'è scritto anche Cesenatico, 18 luglio 1939, sempre a penna. Un sacco di dati che non ci serviranno a nulla.

Questo libro vecchissimo è l'Autobiografia di Vittorio Alfieri (comprata in quanto amante delle cose vecchie, che a volte hanno come unica attrattiva solo l'esser vecchie), che poi in verità non l'ho mai aperta. Insomma mi succede che apro il libro in una pagina a caso, quelle cose che fai soprapensiero, e poi succede che leggi anche, butti l'occhio, mentre tua madre dall'altro lato del capo del filo della cornetta del telefono racconta cose e cose e cose.
Ebbene, mi trovo del tutto casualmente (ma la mia vita è piena di casi della vita) davanti a quanto segue.
A p. 121, epoca terza, cap III, l'Alfieri scrive:

"Ed eccomi finalmente in Venezia. Nei primi giorni l'inusitata località mi riempì di maraviglia e diletto; e me ne piacque perfino il gergo [...]. La folla dei forestieri, la quantità dei teatri, ed i molti divertimenti e feste [...] mi fecero trattenere in Venezia sino a mezzo Giugno, ma non mi trattenni perciò divertito. La malinconia, la noia, e l'insofferenza dello stare, ricominciavano a darmi i loro aspri morsi tosto che la novità degli oggetti trovavasi ammorzata. Passai più giorni in Venezia solissimo senza uscir di casa; e senza fare nulla che stare alla finestra, di dove andava facendo dei segnuzzi, e qualche breve dialoghetto con una signorina che mi abitava di faccia; e il rimanente del giorno lunghissimo, me lo passava o dormicchiando, o ruminando non saprei che, o il più spesso piangendo, nè so di che, senza mai trovar pace, né investigare né dubitarmi pure della cagione che me la intorbidiva o toglieva."

Arrivata al punto "di dove andava facendo dei segnuzzi" ho richiuso elegantemente il libro e mi sono sperticata in una risata che neanche una comare del Goldoni, al pensiero del Poeta alla finestra che fa il vapore con la bocca sul vetro, e alquanto triste senza nemmeno saper perché, in quel di Venezia, fa disegnini tutto il dì con le dita e con lo sguardo uggiosetto.
Allora mi sovviene alla mente di quella volta che siamo andati al Pignagnoli ballabile (l'ultimissimissimo) e abbiamo ascoltato le letture di un altro poeta, il Pignangoli, che parlava di altri poeti e delle loro tristezze, e che secondo me ha capito tutto, Venezia o non Venezia, e che dice così:


"Il poeta Pascoli, poveretto, stava male. Beveva un fiasco di vino sotto a un pergolato, diventava un po' allegro, ma era un'allegria che gli durava poco. Dopo andava a tirarsi una delle sue pugnette, e, non l'avesse mai fatto, gli venivano tutti i rimorsi del mondo. Anche il suo sguardo, diventava cupo e serio, e non diceva più una parola. Invece l'uomo che ha una bella donna, lui guzza, sta benissimo."
(Dalle opere complete di Learco Pignagnoli, Opera n. 107 di Daniele Benati, Aliberti Ed.).


Insomma, siamo stati a Padova per una mostra, e poi a Venezia per Venezia, per le Schegge (scaricateveleve gratis), per Spinoza.it e per gli amichetti. Ed è stato maraviglioso. Farò post due tre quattro cinque, non lo so quanti. Magari anche nessuno. Perché alla fine, certe cose, cosa vuoi.

mercoledì 24 novembre 2010

Cioè, di cui, coloro

bzzbbzz

bbbzzz bhzhzz

"...perché io volevo dire che siccome, cioè: quelli che io ho sempre ritenuto che portassero avanti un discorso giusto, invece quelli lì, mi devo ricredere di quello che hanno detto anche se coloro non sono della mia parte, perché invece quelli che erano della nostra parte, cioè, avevano contrastato nei fatti, i fatti sono chiari, ci sono e io mi baso su quelli lì, e coloro i quali che invece alla fine le cose, sì, le cose, io quelli, coloro, per cui, in cui, di cui, insomma, quelli che erano dall'altra parte e le cose che loro le dovevano fare, avevano detto che le facevano, invece gli altri dicevano delle cose, io non ci credevo che le facessero, devo dire che alla fine mi devo ricredere purtoppo che quelli della mia parte, a parole sì, invece i fatti dicono che l'idea, cioè, nonostante fossero dall'altra parte, mi devo ricredere e quelli che, coloro che dicevano la mia idea era la stessa. E allora, alla fine, cosa voglio dire?"

Ah nanìn, se non lo sai te.

Questo è un estratto da un discorso riportato a memoria dalla sottoscritta (ma vi giuro potrei quasi dire "testuale"), sentito fare alla radio da un politico in merito alla disastrosa situazione del suo paese. Non dirò il politico perché non lo so, e nemmeno il paese. Amen.

Pori i me schei, a disea me mama.

domenica 21 novembre 2010

Forse sono cose

Esco da una stanza per andare in un'altra, che devo fare qualcosa. Arrivo e non mi ricordo più cosa devo fare o prendere... allora torno nella prima stanza e niente, mi ritorna in mente.

Viaggio in macchina pensando intensamente ad una persona. Quando arrivo in casa faccio un sacco di cose, passano delle ore, leggo, parlo, ascolto la radio. Poi torno in macchina di nuovo, devo fare delle commissioni. Ed ecco che tutto il pensiero di quella persona che avevo pensato tornando a casa è come se fosse stato lì ad aspettami, e allora succede che mi si catapulta addosso, identico a come l'avevo lasciato, posso ripartire da lì.

Sono a letto e faccio un sogno. Mi giro dall'altra parte e puf, il sogno svanisce. Allora mi rigiro nella posizione di prima ed eccolo lì, esatamente dove l'ho lasciato.

Torno dopo un anno intero nella stessa casa delle vacanze dell'anno prima. L'anno prima avevo letto un libro. Appena entro nella casa, quel libro lì, le immagini, la sua musica, i personaggi, e le emozioni, pure, sono tutti lì, attaccati alle tende, ai muri, al compriletto.
La casa me lo racconta di nuovo.

Comincio a pensare che i pensieri siano cose.
Comincio a pensare che sia meglio avere sempre pensieri belli.

martedì 16 novembre 2010

da cui vergine nacque Venere

Sono stata in Portogallo alcuni giorni (quattro) per il progetto Comenius, ed è anche per questo se il blog è rimasto nel dimenticatoio per un pochetto.

Ecco un brevissimo riassunto del viaggio fatto di racconti sparsi che c'entrano poco tra loro, così come si addice alla regina dei cialtroni, che sarei io (poi, qui, torna tutto come prima. Credo)

Il primo giorno veniamo salutati, a colazione, dal quotidiano locale dal quale scopriamo che (con sorpresa e senza nascondere lacrime amare), data la crisi in cui versa il paese, i ministri, deputati politici e contorni vari del governo portoghese si tagliano gli stipendi. E questo perché, dice il giornale, "la crisi l'affrontiamo tutti". Vabè, ah ah, bravi! pensiamo, ma passare dai soliti 15 mila euro di stipendio dei politici a, mettiamo, 14,50, son bravi tutti, cosa vuoi che sia.
E invece no. I politici portoghesi passano dai loro attuali 3,5 mila euro di stipendio circa (pubblicati) ai 2, 2,5. Come i nostri, paro paro. Infatti il pd, per affrontare la crisi, sta per regalare ai suoi senatori un iPad.
(Ecco perché m'è arrivata la letterina a casa per chiedere sostegno economico al partito in questo difficile momento!).

Pregni di felicità per il viaggio nonché di malinconia (?) per il nostro amato belpaese (e della voglia di tornare e condire un panino con ripieno di governo), iniziamo il nostro tour.

Ho visitato città, veduto cavalli e cavalieri ad Almeirim (che, voglio dire, lasciate il motorino e presentatevi dalla morosa col cavallo, date retta), saputo tutto sulla corrida portoghese, assistito a canto dei furcado in osteria a Santarém (secchiate di testosterone, a momenti m'affogavo), mangiato ovunque e sempre (benissimo), acceso due candeline a Fatima, visitato le scuole, confrontato idee e pareri e lavori con i colleghi europei, passeggiato e goduto della vista delle milioni di azulejos diverse in giro per le strade, panni stesi, volti intensi; goduto del fado all'Adega do fado ribatejo a Lisbona, consumato un numero disumano di risate (...e altro non dico ché è fatica raccontare emozioni e impressioni in breve spazio),

ma,
soprattutto, gente,

ho visto l'OCEANO.

E qui devo aprire una parentesi.

Perché io, che volevo toccare l'acqua, è stata poi l'acqua
che ha toccato me.

Spiego:

correva il giorno 9 novembre quando, nel tornare da Fatima verso Nazaré, ci fermiamo in un punto panoramico ad ammirare l'oceano.









Scendendo poi a valle per andare a degustare dell'ottimo pesce in un localino in riva all'oceano, in pullman io e la mia collega disquisiamo di spiritualità, amore sovrumano e delle meraviglie della natura. E' così che mi racconta che uno dei suoi incubi più terribili è di essere investita da un'onda; ed è così che io, al contrario, le racconto che quello è da sempre uno dei miei sogni surreali più grandi, e cioè che sia proprio un'onda dalle dimensioni giganti l'ultima cosa che vedo. Perché se sono lì e la posso vedere davanti agli occhi, all'onda gigante, è chiaro che poi ci muoio sotto.

Ah, l'acqua! Ah, noi! segni zodiacali marini (due granchi), quanto c'affascina, l'acqua! Quanto la sentiamo, l'acqua! Quanto ci appartiene come elemento, l'ACQUA!

E così, catturate dall'oceano e dalla sua magnificenza e potenza









e dalle incredibili onde, subito dopo mangiato corriamo a fotografarle, riprenderle, fare video, sentire il vento, ascoltare lo scrosciare dell'onda che rompe. E lo facciamo solo noi quattro italiani, pieni di passione.
Ma un motivo c'era, se eravamo solo in quattro.
L'incoscienza.


E così abbiamo fatto i video.
E le foto.


E le corse sulla spiaggia.
E le risate.
E i commenti.
E la Mary che tocca l'acqua.

Era così felice, la Mary.
E io la guardavo, la Mary; la riprendevo con la macchinetta fotografica, ridevo anch'io, ridevamo tutti; che felici che eravamo davanti alla potenza dell'oceano, a guardare le onde, e quell'altra, e guarda anche quella che alta, altissima, incredibili! Quale fascino, quale forza, quanta acqua. Tanta acqua, proprio.
Così tanta, di acqua, così alte, le onde, così veloci, ma così veloci, osta che veloci! così veloci che poi, dopo che la Mary ha toccato l'acqua, l'acqua ha ricambiato l'amore. In pieno.
Diciamo che mi ha abbracciato con passione e trasporto.
Spiaggiandomi.




Già.



Ecco, da questa esperienza oceanica-portoghese ho imparato due cose:
- Uno: mai sottovalutare le onde dell'oceano, che sono velocine, quando si mettono
e
- Due: bisogna stare attenti a ciò che si desidera, soprattutto nelle ore vicine alla visita a Fatima.

E poi comunque non si fa il bagno dopo mangiato (o almeno credo che sia stato questo che mi hanno detto (insultandomi) i vecchi portoghesi con ombrello sul braccio (lui) e fazzoletto in testa e scialle di lana (lei) a braccia conserte e con le facce indignate (entrambi) che mi guardavano venire su dalle acque).

Poi ho cercato subito un negozietto per cambiarmi, e l'unico aperto era peruviano.

Gente, il Portogallo è bellissimo.


(Aproffitto per ringraziare la meravigliosa ospitalità dei colleghi portoghesi, l'accoglienza, le opportunità di conoscenza e scambio. Li aspettiamo in Italia in marzo. Non vedo l'ora.)

(E ringrazio anche la mitica fu Sony che finì in acqua con me. Gloriosa! Ho salvato la scheda e le foto e i video che mi ha donato fino al suo affogamento)

martedì 26 ottobre 2010

Ogni giorno ce n'è una

Mi chiamo Maurizio e un giorno i miei colleghi m'han detto: scrivi Maurizio, devi scrivere. Ma io non son capace. Fa lo stesso, scrivi. E allora scrivo, dài. Che ogni giorno ce n'è una.

Oggi, per esempio, lavoravo ed è passata la maestra Martina, che bella che è la maestra Martina, c'ha i capelli che le arrivano fino al sedere. Poi come tiene i bambini in fila, c'è sempre Davide che le scappa via, quello lì la fa dannare, ma gli altri no, li tiene in fila, che bella la maestra Martina, e brava. E allora oggi ho preso il coraggio e le ho detto: maestra Martina, che bei capelli che ha. E lei si è avvicinata e m'ha detto: sai, Maurizio, che quando mi faccio la doccia (e già che mi diceva così io ero diventato tutto rosso di sicuro), che mentre mi faccio la doccia i capelli che si staccano dalla testa (così m'ha detto, i capelli che si staccano dalla testa) mi scivolano dentro al sedere (sedere, m'ha detto così, m'ha detto sedere) e fanno tutto un groviglio, un mucchio di capelli tutti annodati che fa anche fatica a staccarsi dal sedere, e dopo con le mani io lo tolgo, tiro, e sembra anche che ci sono un sacco di capelli in quel gomitolo, invece ce ne è uno o due, di capelli, magari; che siccome sono lunghi, allora il gomitolo sembra fatto di tanti capelli, e si potrebbe pensare che io ne abbia persi una montagna e che resto calva, e invece è solo perché sono molto lunghi, che si crea il gomitolo. Maurizio (eh, le ho detto), io mi sa che me li taglio.

Io però non so se lo volevo sapere, del gomitolo di peli dentro il sedere della maestra Martina.

lunedì 11 ottobre 2010

Amor non cessi

E' domenica e c'è la sagra, in paese. Lei sa che lo vedrà, e questa volta per un tempo un po' più lungo dei soliti dieci minuti davanti alla scuola. E' tutta la settimana che aspetta.
Non che vada giù in piazza per lui, no. Però l'idea che lo vedrà aiuta di molto il suo essere lì.
Sarà sicuramente in compagnia della sua ragazza. Tu figurati, pensa lei, se a lui, uno così, posso mai interessare io, una così.

E infatti lui c'é. E lei é felice. E lei non si aspetta nulla di nulla, come tutte le altre volte. C'é. Basta.
E lei quando lo vede si stringe nelle spalle e poi se lo guarda da lontano, come si fa con le cose belle da guardare che sai che non le puoi toccare, né avere mai.

Furtivi, segreti, curiosi. E' solo per il caso, sicuramente, quando si incrociano quattro occhi che girano a guardare tutt'intorno. Sono solo io che immagino, che lui si volti a guardare me. Figurati se uno come lui si interessa a una come me. Si stringe nelle spalle.

E prosegue così, quel pomeriggio, una risata con gli amici, una sbirciatina non vista; una risata, una sbirciatina. Risata, sbirciatina. Bevutina, sbirciatina, risatina, sbirciatina. Bevutina.
C'è lui insieme a quell'altra; c'e lui che ride e si fa gli scherzi stupidini; c'è lui che beve; c'è lui che parla; c'è lui che ascolta; c'e lui che se l'abbraccia tutta e se la bacia anche, tutta. Che sarebbe una tortura, a pensarlo da fuori, stare a guardare l'oggetto d'amore che amoreggia con un'altra. Non ci sono spiegazioni razionali a questo farsi del male. Forse è solo veicolo per la fantasia, a poter sognare di prendere un giorno quel posto lì. Forse, invece, serve ad allontanare meglio qualsiasi speranza cosìcché, una volta per tutte, il cuore si metta in pace e i polmoni smettano di sospirare. Strano, che alla fine non si smetta mai di sperare.

E infatti la fantasia la raccoglie tutta e se la trasporta via, ora; lei si lascia trascinare e sono i baci appassionati con lui davanti al cancello di casa, sono i mano nella mano in giro per le vie, gli sguardi complici, complimenti corpi nudi uniti mani tra i capelli carezze sul viso amore ti voglio anch'io amiamoci sarà bellissimo per sempre oddio come ho fatto a vivere senza di te per fortuna che t'ho incontrata amiamoci ancora e ancora e ancora adesso basta voglio dormire un po' mi hai sfinito di baci e carezze dopo però ricominciamo, ok?
Nel sogno, e sennò che sogno è, è sempre lui che la brama. Anche lei, ma meno.

La fantasia, però, per decreto intimo con se stessa, deve durare poco. Per quanto le piaccia lasciarsi andare al sogno, le fa anche una discreta paura. Ché le fantasie che non s'avverano, alla lunga, fan venire la malinconia; e questa malinconia qui, nel preciso, vuol dire come un senso di perdita di una cosa mai avuta. E il senso di perdita di una cosa mai avuta è anche peggio del senso di perdita di una cosa avuta. Perchè dover lasciare andare una cosa mai avuta è come il dover lasciare andare il Desiderio; smetterla; e smettere di desiderare fa ancora più paura che perdere la cosa desiderata, e questo perchè se perdiamo il desiderio è un po' come se perdessimo noi stessi. Che fa paura. Vaccaboia se lo fa.
Perché è così: a volte ci coglie forte la paura di perdere il fatto stesso di desiderare.

Insomma, pensa che ti ripensa a lui, quella domenica pomeriggio, lei ad un certo punto semplicemente si distrae, si stufa; insomma, smette di guardarlo. Basta. Perché desiderare stanca anche, alla lunga. E così il pensiero, libero dal tarlo di quella passione non corrisposta, finalmente può rivolgersi altrove.
Chiacchiera, gioca, ride.

Finchè, improvvisa, un'urgenza la costringe verso il bagno.

Il bagno si trova dietro a delle capanne da sagra. Chissà cosa ci troverò qui, pensa lei. S'è fatta sera, nel frattempo, ed è un po' buio lì dietro. In quell'antro nascosto, delle luci della sagra non arriva che il bagliore. Entra nel loculo con water (che si fa anche fatica a chiamarlo cesso) in cui c'è scritto donne, a penna, in un foglietto penzolo attaccato su con una striscia di scotch. Solo che, nel richiudersi la porta alle spalle, una mano la blocca. E lei si prende anche un po' paura, a dirla tutta.

E' lui.

L'ha seguita? Impossibile. Che ci fa qui? Non lo so.
Lui, agile e veloce come la polvere, le sguscia dietro ed entra nel piccolo loculo munito di water richiudendosi la porta alle spalle, incastrando entrambi dentro lì.
Si guardano.
Davvero lei non ci capisce niente. Lei e lui, il suo sognato amato bramato lui, dentro il cesso? E perché l'ha seguita?

Sono caduta e sono morta, adesso sto sognando, questa è l'anticamera del paradiso, questo deve essere tipo un premio, un premio che mi danno dentro il cesso puzzoso della domenica della sagra, un premio adeguato alla mia vita. Me lo prendo, questo premio, e dopo muoio e vado in paradiso di sicuro. Non può essere che così.
Sta scappando. sta scappando perché ha dato un pugno in faccia ad uno perchè gli deve dei soldi e adesso questo lo insegue e lui ha pensato di nascondersi dentro qui. In effetti è un nascondiglio perfetto perché chi entrerebbe nel cesso delle donne per dare un cazzotto a uno? Al massimo lo aspetta fuori.
Oppure mi vuole uccidere. Ecco, sì, deve essere così: ha visto che lo guardo, forse l'ho guardato troppo questa settimana fuori da scuola, non dovevo, che impertinente maledetta che sono, sfioro i limiti dello stalking. Lui se ne è accorto e si è stufato e allora mi ucciderà. Ecco, andrà così.

Mi guarda. Ma perché mi guarda ancora? sta cercando il modo di non farmi soffrire, forse. Forse sta cercando nel mio corpo il famoso il punto della scuola di Hokuto in cui mi uccide e non si vede come, io muoio e lui non sarà mai condannato. Sì, dai, è così. Ecco perché continua a guardarmi la faccia con insistenza.

E' allora che lui, senza dire una parola, le prende la testa tra le mani con decisione e le appioppa un lungo bacio sulla bocca. Un bacio semplice, il caldo contatto di labbra che sprofondano.
E poi la molla lì. E la guarda. E sorride.
Anche lei, che non ha nemmeno fatto in tempo a chiudere gli occhi (ma che in verità non ha voluto chiuderli per paura di essere morta e che si stesse verificando l'opzione Uno, quella del paradiso), anche lei sorride. E poi dice:

"Tu sei un maschietto, credo che tu abbia sbagliato cesso".

Ride, lui.

"Devo fare la pipì", dice poi lei guardando il water.
Lui, spavaldo, appoggia una spalla al muro (se possiamo definirlo muro), si infila le mani in tasca e aspetta, zitto.

"Mi scappa la pipì", ribadisce timidamente lei. "Se non vai via, la faccio lo stesso, adesso, con te qui, perché mi scappa proprio forte forte".
"Non ne hai il coraggio".
"Sì, invece, mi scappa e adesso la faccio".

E così lei, visto che lui non si toglie dalla sua posa fiera e gagliarda di spalla appoggiata al muro mani nelle tasche Geims Din, decide di sbottonarsi i pantaloni e lo fa in modo semplice e meccanico, senza alcuna malizia, come tutti i giorni, dedicandosi distrattamente a quelle quattro banali manovre che servono a fare la pipì:

sfilarsi i pantaloni, poi le mutandine, sedersi sul water, aspettare.

Lui, la spalla appoggiata al muro, la guarda e sorride.
E anche lei (la morte scampata), seduta sul water, i calzoni e le mutande afflosciate sulle caviglie, i gomiti appoggiati alle ginocchia, le mani a tenere il viso, lo guarda con due occhi grandi così. Però non sorride tanto, in verità, perché la pipì le scappa proprio forte.

"Fin qui son bravi tutti", dice lui. "Adesso voglio vedere se hai il coraggio di farla, se viene giù, con me qui che ti sto a guardare".

Devo farcela, pensa senza più guardarlo negli occhi. Non voglio certo dargli la soddisfazione di non riuscire a fare la pipì. E poi, se riesco a fare la pipì davanti a lui, la cosa lo farà senz'altro innamorare.
Si guarda le dita delle mani sovrapensiero, poi gira lo sguardo verso la cartigenica, quello sguardo assente come a cercare concentrazione per il momento in cui la pipì decide di uscire. Spingere non serve, tocca lasciare andare, invece. Che poi, se esce il primo goccio è fatta, sei a posto.
Si rilassa cercando di non pensare che lui è lì (impresa per niente facile), chiude gli occhi, inarca la testa leggermente all'indietro e si lascia andare in un breve un sospiro. Esce, lento, il primo caldo goccio liberatorio, seguito dallo scrosciare di una lunga e alquanto goduta pisciata.
Non sono morta ammazzata dal mio amore e sto finalmente facendo la pipì. Cosa posso volere di più, io?

"Ma lo sai, te, che questa qui è una cosa molto più intima che se avessimo mai fatto all'amore?"

Lei riapre gli occhi, prende un pezzo di cartigenica, guarda sorridendo il ragazzo bello Geims Din appoggiato con la spalla al muro e le mani in tasca, e si asciuga. Poi si alza, solleva le mutandine, solleva i calzoni, sistema la maglietta, tira l'acqua e si mette in piedi davanti alla porta aspettando che lui la apra.

Forse l'ho fatto innamorare, pensa lei.
Forse mi sto innamorando, pensa lui.

Poi escono e si avviano, senza nemmeno guardarsi, ognuno nella sua direzione, fieri complici di un trasgressivo atto d'amore appena nato.

lunedì 4 ottobre 2010

Poesia dell'Ahamore stanco

- Amore...
- Sì?
- ti voglio dedicare una poesia.
- ohchebello!
- si chiama Poesia dell'amore stanco.
- ah.
- senti eh
- sentiamo.

Poesia dell'amore stanco


Voglio fare l'amore
stanco.

Le tue mammelle

- mammelle? che poesia, amore!
- mammelle, sì. zitta che il poeta sono io.
- ambè, certo.

le tue mammelle
(sei pregata di non interrompere, per favore)
le tue mammelle
pendono

- Pendono? PENDONO?
- ma stai zitta?
- ...
- mi tocca ricominciare
- no, ti prego.
- e invece sì.

Voglio fare l'amore
stanco.
Le tue mammelle pendono
pendono

pendono

pendono

pendono


- e ho capito, che pendono! Ma serve proprio dirlo tutte queste volte?
- Certo che sì! E' per creare pathos nel pubblico.
- ah certo! il pubblico.

pendono
...

- e questa pausa?
- sempre il pathos.
- senti, hai mai pensato di fare il poeta per vivere? no, perché ti vedo bene sai? c'è del talento in te.
- zitta che mi sconcentri. Eravamo?
- alle mammelle che pendono
- ah, giusto.

pendono pendono pendonopendonopendonopendonopendonopendonopendonop


- ma cosa fai? acceleri anche, adesso?
- ZI-TTA!

pendono
sulla mia bocca.

Soffoco.


Fine.

- ...
- Piace, amore, la poesia dell'amore stanco?
- Non si vede dalla faccia?
- Mh, non saprei. Posso toccarti le mammelle?
- no.


Nota a pie' pagina: questa è una poesia che appartiene al purtroppo non ancora famoso stile poetico chiamato (da me) "stile della poesia inframezzata", stile del quale peraltro esiste solo un altro tentativo (mio) che se avete molto coraggio, trovate qui.

venerdì 1 ottobre 2010

Quello che vuoi

Quando hai tre anni ti danno un foglio completamente bianco, dimensione A3, le tempere, e tu ti puoi sfogare e fare quello che vuoi. Lo chiameranno "disegno libero". E se ci dai di palmo di mani di dita di braccio; e se ti sporchi dal naso alle scarpe; e se il disegno cambia, che prima è un cerchio di un colore solo, e poi diventa via via un ammasso di colori; e sempre di più, sempre di più; e se poi colorando ci provi un tale gusto che colori con tutto il corpo e allora ci metti trecento colori; e se alla fine, dai dai, l'A3 è tutto un pastrocchio marrone che gronda tempera in ogni dove...

fa niente.

Stai sperimentando. E' bellissimo, ti diranno.

Poi cresci e il foglio che ti danno diventa un A4, ancora bianco, ma solo ogni tanto sarà un disegno libero. Per lo più ti chiederanno un disegno dei tuoi genitori, del tuo amico, della tua scuola, della cosachetièpiaciutadipiù.

Cresci ancora, poi, e ti trovi a scrivere su dei quadretti di un centimetro in fogli tutti attaccati tra loro. Si chiama quaderno, ti diranno, e devi andare dalla prima all'ultima pagina, in ordine. E devi fare quello che ti chiedono, per lo più. Se sei fortunato (molto), quando sbagli non strappano il foglio e non ti fanno rifare tutto da capo.

Poi cresci ancora, e ti trovi con i quaderni con il margine, certe righe stranissime e i quadretti sono ancora più piccoli.
E più cresci, più i quadretti si restringono, anche le righe cambiano e continuano ad esserci i margini; e se non ci sono più i margini è perché hai imparato da solo a rispettarli. Intanto il foglio è sempre più piccolo e pieno di bordi e righe e quadretti. E tu ormai hai imparato come si fa. E l'hai imparato talmente bene che ti viene naturale, così naturale che è una cosa che fai senza nemmeno pensarci. Di stare dentro i quadretti, di scrivere dritto dentro le righe, di non uscire dai margini (addirittura sei così bravo che li vedi e li rispetti anche quando non ci sono).

Poi.
Poi magari un giorno (sei diventato grande) succede che ti danno (o ti prendi) un foglio A3 bianco, tempo e ogni strumento possibile e immaginabile. E poi ti dicono (o ti dici): sei libero, fai quello che vuoi.

E tu vai nel panico.

mercoledì 29 settembre 2010

Sono una ragazza con i gieans

Ieri sono stata a Bologna, in macchina. Quando stavo per tornare alla macchina dopo aver fatto i giri, mi scappava la pipì e non sapevo dove farla. Dove si fa la pipì, se sei per strada in una città? Non resisto per tutto il viaggio, la faccio in autogrill tornando, ho pensato. Sono una ragazza con i gieans, sono una ragazza libera che si ferma da sola in autostrada in autogrill, parcheggia, scende dalla macchina, entra nell'autogrill, anzi, prima chiude la macchina (con la chiave, che in autogrill la macchina si chiude con la chiave), poi entra in autogrill, se vuole si beve anche un caffè, che è un pochetto stanca, poi va in bagno, poi esce dall'autogrill, entra in macchina e riparte.

Sono una ragazza con i gieans, mi scappa la pipì, vado in autogrill e la faccio lì, perché sono una ragazza con i gieans, pensavo mentre tornavo a piedi verso la macchina.

Sono entrata in un bar vicino a dove avevo parcheggiato, ho preso un caffè, ho chiesto del bagno, ho fatto la pipì, e sono tornata a casa dritta.

domenica 19 settembre 2010

pagina dieci

Sto leggendo un libro, e questo libro è Stirpe di Marcello Fois, e devo dire che questo è un libro che mi è piaciuto subito dalle prime righe.
Questo libro me lo ha consigliato la mia bibliotecaia preferita quel giorno che ne cercavo un altro ma che non era ancora arrivato. C'è un punto, a pagina dieci, che mi è piaciuto così tanto che l'ho letto centomila volte. Sembrerebbero anche tante, a contarle così, centomila, ma invece non sono tante per niente se è il numero di volte che leggi una cosa che ti piace. Infatti sta succendendo che non sto andando avanti col libro perché torno sempre a rileggere questo punto qua e allora sono ancora a pagina venticinque. Poi, siccome non ho un turmlb, mi ci manca solo un trumbrl a me, ho deciso che quel pezzo di pagina dieci lo metto qui, magari vi piace anche a voi.

"Lui quella mattina ha fatto tardi per una faccenda in casa; lei, anziché stare dietro alle tre marie, ha deciso di farsi avanti e di bussare. Lui dalla porta chiusa ha percepito familiare quel bussare e, contro ogni aspettativa, si è precipitato ad aprire superando con un balzo il fabbro in posizione vantaggiosa.
Ecco: in questa simultaneità non c'è Destino, c'è testardaggine. Gli amori durano esattamente un momento perfetto, il resto è solo rievocazione, ma quel momento può essere sufficiente a dare un senso a più di una vita. Così fu dunque, lui allungò un'offerta congrua per il Santo, quasi l'intera giornata di lavoro, e lei la prese allargando il palmo della mano perché lui potesse sfiorargliela con comodo. Un gesto di cui mai si sarebbe vergognata nonostante, nell'abisso del suo ragionare, fosse più licenzioso dell'ipotesi di concedere la verginità. Perché in quel gesto c'era un invito, e un invito è assai peggiore della semplice, stupefacente, fisiologia del desiderio. Lì non c'era stupore, c'era coscienza, intento preciso di disporsi a farsi toccare da quel maschio".

sabato 18 settembre 2010

Poi ci lamentiamo che.

Premessa d'obbligo: questo è un post di sfogo.

Ho qui davanti a me il libro consegnato a scuola per mio figlio di nove anni, quarta elementare (credo di aver capito che le insegnanti sono state obbligate a prendere questo).
Voglio evitare di dare giudizi sulla copertina. Rischio la feroce polemica.
Lo sfoglio.
E' il "Libro di scrittura".
Che bello, penso. Guardiamo.

Pagina 4. Cito.

"Scrivere un testo"
Il testo è un insieme di parole combinate tra di loro per dire qualcosa.
Proprio per questo ha sempre uno scopo, ed è importante conoscerlo, in modo da non perdere la bussola.

In mezzo alla pagina c'è un disegno grande, una ragazza seduta ad un tavolo, ha una penna in mano, un quaderno appoggiato sul tavolo ed è in procinto di scrivere.
A lato del disegno ci sono dei riquadri colorati dentro i quali le indicazioni in risposta al seguente sottotitolo:

UN TESTO PUO' SERVIRE PER:
(vediamo)

- informare
- ordinare
- invitare
- ricordare
- affermare
- esprimere emozioni
- divertire
- chiedere
- ragionare
- comunicare
- raccontare
- divertire.

Ah. Ok.
Peccato che manca uno. Importantissimo.

Giocare.

Poi ci lamentiamo che.

mercoledì 15 settembre 2010

Bookato

Insomma, è poi vero che c'è questo grande dibattito, no? sull'e-book, dico.
Sì no sì no.

Un giorno sono andata dalla mia nonna, le ho detto: nonna, sai cos'è l'e-book? lei mi ha detto: Eh? Poco sa cosa sono i libri, lei, figurati. Nella sua casa ce ne sono davvero pochi. Sa leggere, sì, certamente. Ha fatto fino alla terza elementare. Ma soldi per comprarsi dei libri, quelli no, non li aveva. E poi non c'era mica il tempo di leggere. Ma fa lo stesso.
"Sai nonna, l'e-book è praticamente un libro che invece che essere di carta è nel computer, e ne puoi avere tantissimi in poco spazio, come poter girare con tutta un'enciclopedia sotto al braccio, ma leggerissima". Ooooh, mi dice lei.
Io lo so che non le interessa tanto, questa storia qua dell'e-book, ma è così bello parlare con lei, lei si stupisce sempre di tutto. Si stupisce di una cosa anche se in un pomeriggio gliela racconti dodici volte. Si stupisce tutte le volte come se fosse la prima volta che gliela dici. In effetti per lei lo è, ogni volta, la prima volta che gliela dici.

Lo so che c'è un grande dibattito, e-book sì, e-book no. Lo spazio, ma l'odore, la comodità, ma l'affetto, la quantità, ma i segni che ci lasci. Eccetera eccetera eccetera.
Io però mi ricordo che a mia nonna, quell'altra nonna, la Teresina, quella nata nel 1910 circa, a lei non era piaciuta tanto la tecnologia.
Un giorno, negli anni cinquanta, mio nonno portò a casa una lavatrice. Una lavatrice, sì, quello strumento senza il quale ti voglio vedere io a fregare le lenzuola e le tovaglie chino sulla tavolozza dentro la bacinella grandissima con la spazzola in una mano e il sapone nell'altra.
Insomma, mio nonno che sentiva le donne che si lamentavano del freddo nelle mani a lavare lenzuola, e le vedeva anche, quelle mani provate; mio nonnno che amava tutte le novità (ecco, forse è stato più per questa cosa qua) e che era un generoso; mio nonno un giorno portò a casa la lavatrice, tutto fiero del gran gesto.

"Io quell'affare lì in casa mia non lo voglio", avrebbe detto lei.
"Va ben", avrebbe detto lui.

Inutile dire che le figlie sì, le mie zie la volevano eccome, la lavatrice.
Ma la nonna no.
"Col cavolo che io metto le mie lenzuola là dentro. Punto primo, di sicuro non lava bene. Punto secondo, io non mi fido".
Io non mi fido, a pensarci, è una cosa bellissima, detta ad una lavatrice.
E allora sono le figlie a fare il primo lavaggio. Prendono tutte le lenzuola della grande casa di campagna (che non so se avete una minima idea della grossezza delle lenzuola di una casa di campagna degli anni quelli), le prendono dai letti dei nonni, dei genitori, dei fratelli, delle sorelle, dei nipoti; lenzuola che hanno alle spalle almeno quattro mesi di dormite (che non so se avete una minima idea di come sono delle lenzuola dopo quattro mesi di dormita. No, secondo me nessuno di noi ce l'ha).
Prendono le lenzuola e arrivano davanti alla lavatrice. Ma mica ci stanno tutte, le lenzuola, nella lavatrice. Eh no. Una sola. Dentro in lavatrice. Col sapone della lavatrice. Che fa il suo lavaggio da lavatrice. E si sposta mentre lava, perché è una lavatrice con le ruote e quindi mentre centrifuga sbatocchia a destra e a sinistra, a destra e a sinistra, pensa che concerto, sbam! a destra sulla scala e sbam!a sinistra sul mobile basso; e poi a volte viene anche un po' in avanti, spettrale. Che un pochino la mia nonna aveva anche ragione a non fidarsi, a pensarci adesso.
Poi, finito il lavaggio-concerto, tolgono il lenzuolo e... Sorpresa! no, non è venuto mica bene. Guarda qua, ci sono ancora le macchie, non è bianco come viene con la cenere e il sapone e le sguarattate di braccia e mani forti.

Ecco, mia nonna adesso è tutta soddisfatta. La lavatrice non conta niente, vedi?
Ma le zie, invece, son tutte orgogliose della novità tecnologica. Le zie, stufe di mastelli e cenere e sguarattate di braccia e mani forti, sono felici. Fa tutto la lavatrice, le lenzuola le possono anche lavare più volte l'anno, non solo quattro o cinque.
Ma mia nonna non la vuole perdere così, la battaglia con gli aggeggi moderni, la sua battaglia personale contro la tecnologia.
Allora cosa fa? cosa si inventa la vecchia? Una mattina prende un lenzuolo buono solo da far stracci, gli fa due strappi stile Fontana nel mezzo e lo appende di fuori nel filo nel campo. Ecco cosa fa. E quando il nonno torna, tutta fiera, lo porta lì davanti al lenzuolo steso e gli dice "Guarda! Guarda qua che cosa fa la tua lavatrice alle mie lenzuola!"

Nonna uno, nonno zero.
Ma a mio nonno poco importava, sai, se le lenzuola le lavava la sguarattata di braccia e mani vigorose o la lavatrice.
A mia nonna sì, invece, importava. E molto.


Mia nonna, questa qui ancora viva, nata nel 1921, quella a cui sto raccontando dell e-book, anche lei finché ha potuto ha lavato a mano, china nella vasca, me la ricordo bene. Poi però c'era anche la lavatrice, per certe robe. Era una nonna più moderna, diciamo. Ma attenzione: lei faceva i distinguo. Io non li capivo, ma lei faceva dei distinguo precisi e credo anche di averle chiesto spiegazioni, un giorno, sul perché certe cose le lavava a mano e certe altre no; e non devo aver capito tanto bene. Mi sembra di ricordare che certe macchie in lavatrice non venivano. Credo. Comunque io sicuramente avrò fatto spallucce e sarò andata a giocare giù di sotto.

Con questa storia dell'e-book, alla fine, non so bene come pormi. Di sicuro se lo regalassi a mio papà, la prima volta che son scariche le pile, lo lancerebbe fuori dalla finestra e addio.
Mia mamma non ne parliamo nemmeno.

E io? Io, non mi sento di dire che la roba viene meglio a leggerla lì invece che là; e se per caso, mettiamo, un giorno mio marito venisse a casa con un e-book in regalo, non è che mi metto a strappare le lenzuola. Ci mancherebbe. Quantunque, per dire, non so. Ogni tecnologia vuole il suo tempo, dai, è inutile. E poi succede come con tutti gli agi tecnologici, che arriva un giorno che ti chiedi come hai fatto prima a fare senza. E' normale.
Anche mio padre, che non sapeva assolutamente inviare gli sms (tanto che la prima volta che me ne ha inviato uno, era in Etiopia, mi ha scritto "baci"e io ho seriamente pensato che l'avessero rapito e che il messaggio l'avessero scritto i rapitori per depistarci), ecco, anche mio padre, adesso, usa il cellulare in modo regolare e non saprebbe più farne a meno.

E' così, arriva per tutti gli aggeggi tecnologici, e succederà anche per l'e-book, il giorno in cui ti chiederai come potevi vivere senza.

A meno che tu non sia mia nonna Teresina.

venerdì 3 settembre 2010

Perché? (ovvero: arrendetevi, vi inseguiranno fino alla tana)

Nella mia cucina succede praticamente di tutto, e questo tutto succede mentre siamo insieme appassionatamente, perchè la cucina per noi è IL luogo.
Si mangia, si fanno i compiti, si rompono le susine a chi fa i compiti, si spacca la testa (o si tenta di) a chi ti impedisce di fare i compiti, si impedisce a chi vuole spaccare la testa di spaccarla, e a chi rompe le susine di romperle; si impedisce di essere impediti nello spaccare la testa o nel rompere le susine, perché a quel punto il desiderio di rompere e/o spaccare è salito alle stelle; si ascolta la musica, si va in rete, si parla, si litiga, si esce, si torna, si fa pace, si gioca a carte, si prende in giro il pesce, si dà dello stronzetto al granchio, si mettono le bocce vicine per vedere il pesce che vorrebbe attaccare il granchio e non capisce che c'è il vetro nel mezzo, lo si piglia pe' culo un'altra volta; si va sotto la tavola a giocare a biglie, si chiacchiera con gli amici, si sparpagliano sulla tavola tutte le bollette da sistemare da due anni a questa parte e sul più bello, mentre tu hai diviso le carte ed è tutto sotto controlo, lui ti dice: adesso sbaraglia perché dobbiamo apparecchiare.

Di tutto, insomma.
Tra il tutto che si fa in cucina, stando insieme, c'è stato un giorno che ho pensato bene di farmi la ceretta. Sì sì, la ceretta alle gambe.
E così, mentre i bambini giocano con il pallone (di pezza) sotto e attorno alla tavola (no, la cucina non è grande, fanno i "passaggini") e Van prepara da mangiare, io mi faccio la ceretta. Beatamente, chiacchierando, in compagnia. Penso.
Illusa.

Errore. Grossissimo. Gravissimo. Enorme errore.

- Mamma, cosa fai?
- la ceretta.
- perchè?
- perchè voglio le gambe lisce.
- ah. E perché il papà non se la fa?
- perchè l'uomo è bello con il pelo.
- e la donna no?
- mh, no.
- perché?
- perchè la donna è bella con le gambe lisce.
- perché?
- perché sì.
- non si dice perchè sì.
- ok. Allora: perchè il pelo nella donna non è bello.
- perché?
- diciamo che a me piace così.
- ...e allora ti fai le gambe lisce.
- sì.
- Ho capito. Posso toccare qui?
- NO!
(ovviamente tocca)
- Troppo tardi. Adesso hai le dita tutte appiccicate! Tieni questa carta, pulisciti.


- Posso massaggiare io con la mano sopra la carta?
- sì dai, fai così, striscia forte.
- così?
- sì, bravo.
- e adesso strappi, vero?
- sì.
- posso strappare io?
- NO.
- e perché?
- Perché tu non sei capace e mi fai male.
- ma tu non ti fa male?
- no.
- perché?
- perché io so come si fa e tiro forte.
- Ma anch'io sono forte, guarda, ti faccio vedere.
- NO. Tesoro, lo so che sei forte, ma questo lo faccio io.
- posso provare anche io sul mio braccio?
- no!
- e perché?
- Primo, perché tu ti fai molto male perché hai la pelle delicata. Secondo, perché poi ti resta il buco di peli nel braccio, non va bene.
- ma la tua pelle non è delicata?
- un po' meno della tua.
- perché sei vecchia, vero?
- sì, amore.
- ...
- Ma ti vai a fare un giro, per favore?
- No, mi piace vederti che ti fai la ceretta.
- Ecco, te pareva.

strap. strap. strap.


- Ah. Mamma...
- Cosa-vuoi.
- perché vuoi essere bella con le gambe lisce?
- ANCORA!!!
- Sì.
- Ok. Lo faccio per essere bella per il papà.

Finalmente.
Se ne va.
Va a tirare due calci con suo fratello.
Fine delle domande.
Chissà poi perché.

(Però, giuro, la prossima volta me la faccio in bagno, chiusa a chiave a tre mandate).

lunedì 30 agosto 2010

Nella vita la droga non serve

Quando si incontrano, tutte le volte, un abbraccio le raccoglie il tempo necessario a dirsi "Che bello non vedevo l'ora che tu arrivassi ti voglio così bene che non sai, mi sei mancata, ma quanto tempo, tutto bene a casa, sei felice, non riusciamo mai a vederci, sei così magra, ma mangi, tu non mangi, e il lavoro, la vita, le vacche, maledette le vacche sempre tra le palle, sei poi riuscita a estirpare la gramigna dal giardino di tua madre che so che ha fatto più danni lei della coca-cola sgassata".
Eccetera.
Quante cose può contenere un abbraccio, ci si stupisce sempre.

- Vieni, entra. Son contenta che tu sia venuta, avevo proprio bisogno di due chiacchiere con te. Andiamo a sederci nelle sedie immaginarie di paglia in terrazza davanti a queste birre.

Si siedono per terra. Una ha una birra, l'altra un succo. Quella col succo scuote la testa guardando per terra e sospirando lungamente.

- Cosa hai fatto, ciccina?
- Mah, niente. E' un po' che mi struggo, c'è una situazione che, non so bene.
- Ti vedo, cosa c'è?
- Non so se dirtelo, veramente. Un po' mi vergogno, anche se tu non sei il tipo che si mette a giudicare. Magari mi sapresti anche dare un consiglio.
- Dimmi dài
- E' che alla nostra età, non pensavo, sì, insomma...
- Cosa-ti-succede.
- Ok, la faccio breve: mi sono innamorata.
- Cosa?
- Sì.
- Aaaapperò. Non me l'aspettavo. Dì, può capitare anche da sposati. Ma da quanto?
- Eh, è un po'.
- Ma, e tuo marito?
- Non lo sa, ovviamente, ma credo che inizi a capire.
- Senti, può succedere.
- Lo so. Solo che non è una cosa facilissima da gestire, cavolo.
- Immagino. Ma conosco?
- Sì.
- Chi è?
- E qui viene il bello. Passa la birra va'.
- Tieni.
- ...
- Me lo puoi dire o devo strapparmi la camicetta dalla cusiosità?
- Te lo dico, te lo dico. E' che non è facile.
- Ovvio. Vabbè dài, spara...
- Il fatto è che
- che?
- che è una donna. Una donna, capisci?
- COSA?
- Già.
- Una donna? Certo che tu non finisci mai di stupirmi. La cosa prende sfumature interessanti.
- E' strano, sì.
- Ma ti era mai successo?
- No.
- E come.. cioè, ma lei? Le piaci anche tu?
- Credo di sì. Non lo so. E' complicato, dài.
- Eh, insomma, non faccio fatica a crederlo, sì.
- Aspetta, perchè non è finita.
- Cioè?
- C'è un elemento che complica ancora di più le cose.
- Più di così? Oh signore!
- Sì, perché il fatto è che anche mio marito è innamorato di lei. Un casino, guarda.
- Ma cosa cacchio stai dicendo?
- Sì, e non mi guardare con quella faccia. Almeno tu.
- Ma chi è?
- Veramente lo vuoi sapere?
- Eh sì! Hai detto che la conosco. Ma chi è?
- Sono io.
- cosa vuol dire, adesso, io?
- Io, io. Mi sono innamorata di me. Di me. Mi trovo stupenda.
- Scema, sei, no stupenda. Mi prendi per il culo? Ripassami la birra, dai.
- Tieni.
- (ma cretina io che ti ascolto).
- ...
- Lo sai che quello che mi stai dicendo ha un nome, vero?
- Ah sì? E quale?
- PAZZIA
- C'è pillolina che guarisce?
- No.
- Soffro, dài cacchio. Aiutami.
- Ok, siccome i pazzi vanno assecondati, m'han detto, Mi dica, signora: la cosa la sta facendo soffrire molto?
- Sì, moltissimo.
- E perchè?
- E' inutile, adesso, che butti gli occhi al cielo. Guarda che è una cosa serissima.
- Ma certo, capisco.
- Il problema è che sono gelosissima di lei.
- Pure. Brutta bestia, poi, la gelosia.
- Sì. Mi guasta tutto, l'umore, non mi riesco più a godere niente. Tipo l'altro giorno siamo andati a fare un giretto molto romantico. Ad un certo punto lui ha detto: Guarda dove ti porto, che posti ti faccio vedere. Si vede proprio che sei felice.
- Eh eh
- Non ridere. Mi sono incazzata come una bestia. Gli ho detto: Guarda belìn che sono io che la rendo felice, non tu.
- Ah, certo. Immagino la sua faccia.
- E una volta abbiamo fatto l'amore e dopo lui era tutto gajardo e io gli ho detto: "Ciccio, cala la cresta che se lei ne vien fuori felice è merito mio, non tuo. Capito?". Gelosa, gelosa. Non ne esco da 'sta cosa qua.
- Lia, apro un'altra birra, ti dispiace?
- No no, fai. Anzi, aprine una anche per me, valà.
- Brindiamo alla tua salute mentale!
- Dài scema.

F-chisssc. F-chisssc (rumore di birre che si aprono).

- Lia, ascoltami.
- dimmi tutto
- Non è che per caso, oggi, sei andata dal dentista.
- Sì.
- e hai fatto l'anestesia.
- sì.
- Ok, allora facciamo così, tu adesso mi dai la tua la birra e vai a dormire.
- Vaaa bene. Grazie che sei passata, eh.
- Grazie a te delle birre, ciccia. Ci sentiamo più tardi.

Questo dialogo è avvenuto tra me e me e me e l'amica immaginaria di passaggio durante il tragitto dallo studio del dentista a casa mia, subito dopo la cura di una carie.

venerdì 27 agosto 2010

#1 #2 e #3

#1 Un ventunenne

Sono sudata. E' mezzogiorno circa. Ho i capelli raccolti male, sono vestita peggio e ho l'aspirapolvere in mano. Suonano.
Mamma, c'è un signore che vi vuole. Sì, fallo entrare.
Entra quest'uomo. Ha una borsa a tracolla e mi guarda e inizia subito a parlare velocemente, a voce alta mi rovescia addosso le sue parole confuse. Io penso che sono messa come il porco, come il porco, penso, proprio così, come il porco, e penso anche Ma perché questo entra e inizia a parlarmi, mi chiede Come stai signora, parla velocemente e a voce alta però è come se non parlasse con me, mi guarda ma non mi guarda; che diritto ha, questo, di entrare così?
Spengo l'aggeggio e Van dalla cucina gli dice Vieni di qua, vuoi bere qualcosa, avrai caldo. E' più sudato di me. E' mezzogiorno, ci credo che è sudato. Gira per le vie con la sua borsa che dentro ci sono i calzetti, i fazzoletti e le altre robe, me lo ha detto, dopo, che li compra in un negozio, che abita vicino e viene qui a vendere queste robe.

Quando mi urla Come stai signora, io sono sudata fradicia, gli dico, sono sudata. Ecco come sto, sto pulendo e ho l'aspirapolvere in mano e voglio solo finire di pulire, mi chiede dov'è Matteo, ho suonato sotto ma Matteo non c'è. No, non c'è, è in vacanza. E tu non vai in vacanza, signora? Io ci sono già stata, gli dico.
Chi sei? Sorridi e parli forte, ma io lo vedo che non ci sei, che sei nascosto. E' l'imbarazzo. Il mio. E il tuo. Io no, non lo voglio però, questo imbarazzo.

Tu sei entrato qui.

Non ti farò, anche se te lo aspetti, non ti farò quel maledetto sguardo di buonismo ipocrita che ci fa sentire buoni e bravi che ti accogliamo. No, non sei tu, quello lì, e no, non sono io quella lì. Non è il mio sguardo, non è il mio sorriso, non lo avrai, non ci proteggerò, affronterò le nostre verità. Sei entrato qui e adesso facciamo i conti con chi siamo, io e te. Ti stai riparando, e ti capisco, mi dai quello che credi che io voglia vedere, per proteggerci entrambi, forse. Così siamo a posto, mi vendi qualcosa che non mi serve, lo so io e lo sai tu, stiamo tutti al nostro posto, è così che funziona, no? è così che si fa. E' così che stiamo male tutti e due. Quello che adesso mi mostri parlando a voce alta è quello che credi che io voglia vedere, l'etichetta che ti hanno cucito addosso, ogni giorno da quando sei qui, attraverso ogni sguardo che si è attaccato su di te e che tu ci restituisci, l'extracomunitario che vende e che magari non è nemmeno in regola ma che lo si aiuta, magari. No, io adesso voglio vedere chi sei, visto che sei entrato in casa mia, adesso io e te parliamo, e tu mi dici chi sei, da dove vieni, cosa hai passato, un pezzo di te, della tua storia. Se vuoi. E se vuoi io ti dico chi sono e dopo ci parliamo, io e te, vediamo se togliamo queste maschere, io quella del sorriso-ti accolgo-ipocrita e tu quella che ti ripara dall'imbarazzo di un lavoro e di un ruolo che non ti appartiene veramente. Nascondi chi sei perchè qui non interessa a nessuno chi sei, vero? Credi che ti protegga, quella maschera. Magari è così e ti ripari da un incubo, e io adesso ti sto facendo violenza. Perché funziona, è quella che ti abbiamo appioppato noi e noi ti vogliamo vedere così, perché così sembra che faccia meno male.
Invece guarda un po', adesso io e te parliamo come due persone che si vogliono conoscere. Magari. Sei entrato qui. Mi hai chiesto come sto. E tu, come stai.

Fa male, malissimo, ma mai quanto comprare qualcosa per sedare quel male che poi resta chiuso in fondo, sordo, maledetto, che sai che non va bene così, che c'è qualcosa che non quadra.

Siamo in cucina e parlo lenta, ti guardo e penso a cosa devi aver visto e passato, combatto con tutte le mie forze l'imbarazzo mio e tuo, chiusa tra le ginocchia nella sedia di legno alta del figlio più piccolo, cerco me stessa, quella vera, e cerco di restituirtela. Voglio sapere chi sei, voglio vedere la persona dietro quegli occhi velati, ti guardo negli occhi, dritto e non ti proteggo. E non mi proteggo dal mio imbarazzo. Che mi prenda, il tempo disteso della chiacchierata, il tempo lungo di un imbarazzzo che non si scioglie; lo preferisco all'ipocrisia gelida e sicura. Non ci sto, a parlare in superficie. No. E pian piano scende il velo. Il mio. Quello di Van che ci porta un bicchiere di succo d'arancia. E il tuo.

Matteo mi conosce, anche tu, anche tua mamma, sono venuto qui, lui mi conosce ma anche tu mi conosci, ti ricordi di me? Sì, ma sono passati almeno quattro anni. Come ti chiami? Mahdi. Piacere.

Adesso siamo tre persone che parlano in una cucina. Mahdi parla del suo paese di provenienza. Mahdi parla di sè, dei suoi fratelli, uno è ricco, dice lui, vive in Asia, ha 37 anni e una bella famiglia con bambini e tornano ogni tanto a casa. Mahdi parla della situazione politica italiana, della visione italiana che hanno al suo paese guardando la televisione, della corruzione che dilaga lì, della paura della sua gente che non crede possibile che le cose possano cambiare, dei fucili durante le elezioni, della legge del più furbo che ha imparato che solo a far le furbate si dimostra che si è svegli e intelligenti e che si merita il potere e la ricchezza. Se uno ha il potere e non lo sfrutta, perde credibilità, mi capisci? Capisci cosa dico? Se uno va in politica e diventa potente e non gira con la macchina di lusso, e non vive di lusso e non ha tanti ori la villa le ricchezze eccetera, ecco la gente dice che quello non è bravo politico, che è scemo. E anche la gente pensa così, che devi fare così per diventare ricco anche se rubi e sei corrotto, allora sei furbo e forte, capisci? E se non fai così resti povero e non sei stato furbo, non sei bravo.

Eh, credo di capire.
Ma nel tuo paese, nella scuola, l'educazione...

La scuola, ascolta, la scuola nel mio paese è più difficile di qua, e prepara bene. Ma quanto tempo passano i tuoi figli a scuola e quanto a casa? E' una questione di mentalità della mamma e della famiglia. Quella resta. La mentalità, e i bambini passano molto tempo a casa. Non a scuola.

Credo di capire, sì.

C'è una donna, adesso, ministro della sanità, che ha fatto cose grandi. Lei ha fatto un falò di tutta la medicina tarocca, finta, che prima entravi nell'ospedale e te la davano e morivi. Lei ha dato fuoco a tutte queste medicine finte indiane e adesso lei deve girare con la scorta perché la vogliono amazzare, perché quelli che ci guadagnavano, mi capisci cosa dico? Gira con la scorta. E' difficile.
Nel mio paese ci sono posti che stai bene, e puoi girare a mezzanotte e non ti succede niente, e ci sono posti che non puoi, c'è molta violenza. Come qui.

Adesso io ho vinto il ricorso al tar, non mi possono fare niente adesso in Italia, vedi? Io mostro questo foglio che dice che io posso stare, non mi possono mandare via. E' difficile adesso in Italia, non è come si vede alla televisione. Anche gli italiani, è difficile adesso. Spero di trovare un lavoro in fabbrica, è meglio in fabbrica, ho amici con macchina, che riescono a fare una famiglia. Così a vendere non è bello, voglio lasciare questo, di lavoro. Però almeno adesso uno ce l'ho, di lavoro.

Io pago l'affitto. Vado bene, vuole 500 euro e siamo tre. Ma ho amici che gli chiedono 500, o anche gratis scritto sulla carta e poi ne vogliono 700. Perché?

Eh, succede anche con gli italiani, con gli studenti spesso.

E perché voi italiani accettate e non fate niente?

Eh, non lo so.

Ma vedi qua è meglio però. Le tasse anche se c'è la corruzione, le tasse alla fine qualcosa si fa, le strade. Nel mio paese no. Non funziona il sistema delle tasse, come qui. E' tutto corruzione altissima e per le strade, o le scuole, o gli ospedali non si fa niente. Chi è potente è ricco e pensa a sé e tiene le cose così con i fucili, il popolo ha paura. C'è la violenza, in certi posti, le cose non cambiano anche per la mentalità, ma anche per i militari, i fucili, capisci? Chi è ricco e si ammala, via, vola all'estero. Per studiare, via, mandano all'estero. Qui sì, c'è corruzione, vedi, ad esempio in Italia adesso c'è Berlusconi che è del... PD? No, è del PDL. Ah, ecco, c'è la corruzione anche qui ma alla fine le cose un po' ci sono, per la gente. Funziona, un po'. Invece nel mio paese no.
"Nel mio paese no". Intanto penso.

Parliamo, confrontiamo le nostre idee e i nostri paesi, cerchiamo di capire qualcosa in più di noi, del mondo in cui viviamo, del potere, della mentalità, delle contraddizioni, dello schifo che fa l'uomo, delle volte.

Mi sembra che siamo tutti nella stessa barca, ad un certo punto.

Da quanti anni sei qui?
Quattro.
Quanti anni hai?
Ventuno. E voi?
Io ne ho 37, lui 38.
Adesso devo andare perché passa il mio treno.

Vuoi una bottiglia d'acqua?
No, ce l'ho, grazie.
Un po' di frutta?
Sì, grazie, la prendo, la frutta.

Quando passi di qua passa a salutare, se ci siamo.
Ciao, vado perché passa il treno tra poco, ho paura di perderlo.
Vai vai. Ciao e in bocca al lupo per tutto.
Grazie. Anche a voi.

#2 Un diciasettenne

- Il mio problema è che io non li so fare, i temi, non sono mai stato capace.
- Basterebbe leggere.
- Non mi piace leggere.
- Ma ci sarà qualcosa che ti piace.
- Sì, il calcio.
- Allora domani vai in libreria e ti prendi un libro che parla di calcio.
- Eh, sì, ma io non so dove lo trovo.
- Ma come "non so"... vai e chiedi, magari, la biografia di un calciatore che ti piace, e la leggi. Che ne so, anche uno del passato, Pelè! Vuoi che non ci sia un libro su Pelè!?
- Mh, no. Non mi va.
- Hai provato a leggere qualcosa in rete? No so, blog o altro?
- E cosa sono?
- Mh. Allora credo che difficilmente, se non inizi a leggere, migliorerai nel fare i temi.
- Eh, mi sa.
Alza le spalle. Non importa, in fondo, sapere fare i temi.

#3 Un cinquenne

Siamo in spiaggia sedute sull'asciugamano. Io e lei abbiamo passato l'infanzia insieme e adesso siamo qui, a guardare i nostri figli che giocano in riva al mare. Li osservo. Sono bellissimi e penso a quanto siano fortunati, a godersi il mare.

- Era tanto che non lo vedevo. Com'è cresciuto. E' bellissimo.
- Eh sì, abbiamo proprio dei bei bimbi.
- Già.
- Lia, senti: ti racconto cosa mi succede spesso. Quando sono in giro con A. le persone si avvicinano e mi dicono: "ma che bel bambino, signora".
- Non faccio fatica a crederlo, in effetti.
- Sì, solo che poi dicono anche (e succede spesso, eh): "Da dove viene? Perché mia figlia ne vorrebbe uno ma dicono che ci vogliono un sacco di anni per averlo"
- ahahahaha, ma dai! non ci credo, veramente? E tu cosa dici?
- Io dico che ci son voluti nove mesi.
- Ahahahahha! E loro?
- Loro dicono: "Ma come ha fatto? Sono pochissimi!"
- Ahahahahah. Oh mamma!
- E allora io dico: Le gravidanze è così che durano, signora, di solito.
- Ahahhahahaah.

venerdì 13 agosto 2010

Robe di cui novantarsi

Oggi ero davanti a una quindicina di bambini a presentare il primo libro di Sara.
Se ne stavano tutti lì seduti a terra sui cuscini ad aspettare la storia. Ma continuavano ad arrivare bimbi alla spicciolata e così, non potendo iniziare, ho deciso di giocare un po'.

Vediamo, ho detto, io adesso indovino la vostra età.

Tu hai 4 anni e mezzo. Sì. E tu ne hai sei, vero? Sì. E, mh, vediamo, tu devi averne cinque. Sì. E io? io? io? Invece tu, fammi vedere, tu ne hai tre, giusto? Sì, sono già diventata grande io, vedi? mi ha detto lei. Eccome, le ho detto io.
Non ho sbagliato un colpo.

Poi li ho guardati, mi guardavano. Ho fatto una smorfietta, mi piace prenderli un po' in giro, mi diverto un sacco, a prenderli in giro. Ho chiesto: e io quanti anni ho, secondo voi? Ho più o meno di cento anni?
Loro mi guardavano seri, soppesavano. La bambina di tre anni con la testa inclinata mi ha guardato bene e poi mi ha detto: per me ne hai novanta.

mercoledì 11 agosto 2010

In perdere e in legare

"Addio, mi annoi", disse il suo amico immaginario prima di lasciarlo e andarsene via per sempre (a signorine, molto probabilmente).
"Andiamo bene", pensò Gualtiero. "Se mi pianta anche quello che mi invento io nella testa, sono alla frutta".
E aggiunse tra sé e sé, preso dal panico: "devo fare qualcosa, immediatamente!".

E così Gualtiero, che era uno che si lasciava andare ma di certo non era uno che si lasciava lasciare, prese una corda lunghissima e iniziò a legare ogni cosa; e legò, legò, legò per ore tutto il giorno. Legò il comodino al tavolo, e poi il tavolo alla sedia, e poi il tavolo e la sedia ad una seconda sedia, e poi a tutte le sedie; legò le scarpe con le scarpe e poi le scarpe alle ciabatte; e poi le ciabatte alle gambe del letto, e un giro di corda anche all'armadio con tutta la roba dentro; e poi ancora, legò il letto alla scrivania (senza mai staccare la corda, s'intenda), e ancora, via un giro di corda alla maniglia della finestra, poi alla maniglia della porta, e di nuovo a stringere e girare e stringere; attorno alla cassettiera, ora; alla abat-jour, ai libri, pacchi di libri legati tra loro e poi ancora legati alla spalliera del letto, e poi di nuovo a passare la corda e a legare e a girare attorno alle gambe della scrivania; e ancora e ancora, di nuovo, sì, tutto legato con tutto in modo che, pensava Gualtiero, niente se ne sarebbe andato mai più via da me.

Lega lega, dopo un po' la sua stanza era diventata tutto un passaggio di corda che univa in un unico invrucchio ogni oggetto, seppur piccolo (legò persino le penne tra loro e i fogli sparsi di giornale e i calzetti lasciati per terra), ad un altro oggetto, fino a formare una rete di corda con agglomerati di cose qua e là, nemmeno tanto brutta a vedersi.

Alla fine mancava solo lui. Il genio iniziò a incatenare anche se stesso avvolgendosi la corda attorno al corpo, su per le braccia, e poi le gambe, e poi i suoi piedi alle gambe del tavolo, e poi di nuovo se stesso, e poi un giro attorno al comodino, ben stretto alle caviglie, di nuovo il braccio libero, poi ancora un giro attorno alla vita e via via così, finché Gualtiero si ritrovò incastrato e girato e incatenato così bene che nemmeno le mani erano più libere. Veramente quella destra sì: teneva la cima della corda e gli dava pure un po' fastidio. Allora riuscì a incastrare pure quella e ad annodarla con l'aiuto della bocca ad altezza petto. Poi si lasciò cadere come un salame e rotolò a terra sfinito. La fatica di legare tutte quelle cose a sé non era stata affatto poca.

A vederlo da fuori, sembrava un deficiente. Anzi, era proprio un deficiente.

E adesso?
E adesso l'unica cosa che poteva fare, legato come un salame e steso a terra, era immaginare.

Solo che i pensieri, le storie, le fantasie, i personaggi, le follie, non potevano essere né raccontate né scritte perché quel genio di Gualtiero era solo in casa, proprio così, non sarebbe servito nemmeno urlare, il telefono era lontano, nella foga non ci aveva mica pensato, al telefono, il blocchetto degli appunti era lontano, legato per bene alla spalliera del letto, la penna era lontana, ben legata anche lei alle altre penne ma lontana, il computer, figuriamoci, legatissimo e lontano pure quello.

Per ironia della sorte, l'unica cosa che a Gualtiero restava da fare , lì, avvolto come un salame dalla sua stessa corda, era immaginare e lasciare i pensieri liberi di spaziare, vagare e andare. Senza alcun limite, senza legacci, senza freni. In totale ed enorme libertà.
Gualtiero pensò frasi meravigliose, sembravano musica, accostò parole mai accostate prima, vide succedere storie incredibili, nascere personaggi bizzarri, vide incastri di vite, avventure, morte, amore, sangue e merda (che va sempre bene), immaginò un di tutto e di più che, però, non conosceremo mai. E perché? Perché Gualtiero, quel giorno, decise di legare tutto stretto stretto a sé con una corda. Un genio.

E poi è morto.

No, dai, non è vero. Poi è entrata sua mamma in camera, l'ha guardato steso a terra avvolto come un salame, ha guardato la stanza e ha detto:
"Gualtiero, sei un deficiente".

Poi l'ha slegato e gli ha detto: "vieni a mangiare va', che è pronto. Poi però metti a posto la tua stanza e fai i compiti, che domani t'interrogano".

Lui l'ha anche sentita dire, mentre si allontanava: "ma pensa te se mi toccava avere un figlio deficiente che a quindici anni se ne inventa ancora una per colore."

lunedì 9 agosto 2010

Fatti non foste

Come molti saprannno la Settimana Enigmistica, quella lì che si vanta sempre dei milioni e milioni di tentativi di imitazione, esce di sabato. Accade quindi che il venerdì (che te sei in vacanza in spiaggia sotto l'ombrellone dal lunedì) hai già fatto tutto il fattibile: hai fatto le parole crociate difficili con la matita e la gomma, quelle facili anche con la puzzettina sotto al naso, hai fatto unire i puntini dal tuo figlio piccolo, hai fatto non senza moccolo il numero 86127 (chi l'ha provato, lo sa), quello destinato ai solutori più che abili, aprirei una parentesi: quello destinato ai solutori via di testa, e chiudo la parentesi. Ti sei sciroccato tutte le barzellette, anche quelle scritte, le linotipie a chiave, i bifrontali e le metamorfosi, hai aguzzato la vista e hai risolto tutti i casi polizieschi e i Quesiti con la Susi o chi per lei (a pag.46, ovviamente). Allora succede che ti metti a leggere tutto quel che resta da leggere, tutto tutto tutto, ed è tanta roba, uno non direbbe mai. Se finisco in un isola deserta voglio una Settimana, si sappia. Ed è così che, quel venerdì sotto l'ombrellone, sfoglia sfoglia mi capita di inciampare nella pagina STRANO, MA VERO! dove l'occhio mi cade su una piccolissima foto, anzi tre, e sulla sua sottostante spiegazione.

Valletta, presto! Faccia vedere il lucido. (Tradotto: cliccare su foto per vedere meglio. Qui le signorine non ce le possiamo permettere).



Ebbene: cosa vedono i miei occhi? Numero 27304, un matrimonio canino da Harrods. Ma che bella immagine! Penso fra me e me urlando e facendo voltare tutti.

(guardando attentamente la foto 1, ho notatola presenza del fotografo steso a terra mentre cerca il profilo migliore degli sposi. Altro pensierino tra me e me facendo voltare tutti)

Cari Muffin e Timmy, che dirVi?

Che d'ora innanzi riposerete le Vostre regali membra nelle Vostre stanze e nei Vostri lettini (stasera da me, domani da te, no dai, vieni anche domani tu da me, ih ih, ah ah, ok, dai ok, da me no da te ah ah. eccetera.)



dove Vi auguro di concepire tanti figlioletti.

Che la mattina il maggiordomo Vi porterà la colazione che degusterete a letto, se è Vostra abitudine.



Che, quando andrete in gita nella casa di campagna, potrete riposare nel Vostro lettuccio in old style.



Che vestirete alla moda in ogni occasione



senza farvi mancare i momenti di festa.



e per tenersi in forma, signora Muffin, potrà sempre andare a fare un po' di jogging mentre lui chiacchiererà al circolo del Polo con gli amici


per poi tornare a riposare nella chaise longue a vostra disposizione, ritirandoVi nei Vostri salotti per la Vostra intimità canina.



E vogliamo torglierci il gusto di fare shopping ogni tanto?

( Lo so che tu ora, lettore, stai urlando No No pietà basta No pietà. Fatti forza e arriva fino in fondo)

Oh no! Certo che no! E allora, via! Tesorucci, tornerete di nuovo qui, nel luogo che ha consacrato il vostro Grande Amore, Muffin e Tommy, a scegliere qualche nuovo capo d'abbigliamento per qualche party di zona!
Alè!



(Vuoi, poi, non concederti una pausa biscottino al bar interno? Suvvia, siamo seri.)



Davvero, carissimi Muffin e Tommy, non so come esprimere quello che provo per voi e quello che provo per questo Vostro giorno di felicità. Io sono una persona dotata di grande empatia. L'altro giorno per esempio, vi racconto, ero per motivi x in una sala d'attesa di ostetricia e c'era di fianco a me una signora in procinto di partorire il suo primo figlioletto. Debbo dirvi che tale era la mia empatia nei confronti del suo dolore (una doglia ogni 2 minuti) che mi sentivo anch'io le fitte in tutto il corpo, come lei. Abbiamo iniziato a chiacchierare, io le mettevo le mani dietro la schiena quando arrivava la fitta, lei mi diceva grazie, poi ci guardavamo e sorridevamo. Ad un certo punto mi è venuto da chiederle: "Vero che in questo momento lei odia suo marito?" Voi penserete, ma che cazzo di domanda fai? Eppure io so benissimo che si arriva anche a odiare il marito, in quei momenti lì, marito che per capirci era appena andato a prendersi un panino al bar, e prima di andare l'aveva guardata e le aveva chiesto: "Vuoi una grappetta?". E lei, infatti, dimostrazione che non mento quando dico che sono empatica, mi ha detto che sì, quella era esattamente l'emozione che provava in quel momento.

Bene, cara Muffin e caro Tommy, cari sposini di Harrods insomma, io Vi auguro con tutto il mio cuore e tutta la mia capacità empatica che nella meravigliosa vita che Vi aspetta assieme, Voi possiate, almeno un giorno, viver come cani.

P.S.
Le foto sono state scattate in gennaio. Chiedo perdono se la roba non è di stagione. I lettori comprenderanno.
Chi è arrivato fin qui vince uno snack canino. E una grappetta. Chiedere di Laika.