martedì 26 gennaio 2010

Dell'invidia del pene e suoi dintorni

Quando ero piccola e andavo in giro con la mamma e il papà, capitava che mi scappasse la pipì. Mia mamma mi diceva "Falla lì", e era di fianco alla macchina con la portiera aperta, "che tanto a te chi vuoi che ti veda".
(Mamma forse tu non ti ricordavi il livello di massima allerta del pudore a otto anni. Tutti guardano te, sempre.)
Quando ero ancora più piccola, invece, mi tenevano su in braccio tutta accucciata goffa incassata con le gambe per aria e dovevo anche riuscire a farla in fretta che non c'era mai tempo.
(Grazie Natura che m'hai dato due maschi).

Invidia del pene 1

Magari ci si fermava in un autogrill. Che bello, pensavo io. Che bello una cippa, invece. Perché gli autogrill dell'anno del menga erano delle cose da apnea per tutto il tempo dell'operazione, pena ustione delle narici per esalazioni acide.

Invidia del pene 2

Ma tant'è, c'era il cesso dell'autogrill dell'anno del menga, e allora via, entriamo. Oh che bello, c'è la turca! diceva mia mamma, probabilmente felice di non doversi avvicinare con le sue chiappe alla tazza di tutti i colori del mondo che trovava dentro al cesso dell'autogrill dell'anno del menga.
Bella la turca, diceva mia mamma, è più igienica.
Ok, mamma. Igienica dove? Allora: io mi tiro giù i calzoni, le mutandine fiorate, mi accuccio e mi tengo tutto il vestiario vario tra le mie piccole e goffe braccine sulla pancia, ovviamente guardo giù, e il flusso di pipì (e chi è dotato di vagina lo sa) non esce mai dritto e felice. No, lui sbuca di lato anche quando scappa forte, e solo dopo prende la direzione desiderata. Nel frattempo, coscia mia alè!

Invidia del pene 3

Ma poi, nella turca benedetta, e chi è dotato di vagina lo sa, per fare la pipì ti tocca stare accucciata giù, e allora gli schizzi, gli schizzi, GLI SCHIZZI, MAMMA, dove vanno gli schizzi? La fai in piedi tu? Non credo, avresti tutto il rivolo giù per le cosce, avresti. Dove vanno gli schizzi? E via, schizzi di pipì sulle scarpe.

Invidia del pene 4

Allora, dopo aver guardato gli schizzi finirti sulle scarpe, aver pensato "e adesso come le pulisco", aver anche un rivolino di pipì sulla coscia, cerchi disperatamente la carta per limitare i danni. Ma la carta non c'è. Non c'è. Nell'autogrill dell'anno del menga la carta non c'era mai.

E dunque.
Ieri ero al lavoro in trasferta (diciamo). Vado in bagno per urgente bisogno, visto che era tutta la giornata che ero fuori. Cosa vedo? Due bagni dotati entrambi di turca. Il mio cervello ha subito detto: è più igienico. Certo, te lo ripetono talmente tante volte durante l'infanzia, e non ti puoi nemmeno ribellare, che alla fine quasi quasi non sei nemmeno disperata se la trovi, la turca. Maledetti inculcamenti infantili. No! Stavo quasi per rinunciare, ma non potevo proprio. E allora ieri, mentre facevo le mie robe nella turca, ho capito tutto. Illuminazione delle sei del pomeriggio. Eccola lì, maledetta, l'invidia del pene.

Tutta
candidamente
lì.

(e niente carta nemmeno questa volta).

Ah, ecco cosa ho visto in un bagno a Parigi. Altroché turca. Vedi, la civiltà! Nei bagni, la vedi, la civiltà.


E chi è dotato di vagina lo sa.

giovedì 21 gennaio 2010

Classe 1901

Si chiamava Margherita Montanari, classe 1901, ma tutti dovevano chiamarla Lucia, ché Margherita è la regina, diceva il vecchio Montanari, e noi siam contadini, e te non puoi portare il nome di una regina che è ancora viva, che non sta bene, le diceva.
Lui si chiamava Alfredo, ed era quello bello.
Dice che andava a casa sua a fare la veglia con gli altri ragazzi delle case vicine; dice che la Lucia era la più bella e che lui se la voleva sposare. Glielo aveva chiesto, al vecchio Montanari, un giorno, e lui aveva detto che andava bene; a lui andava bene, bastava che andasse bene anche alla Lucia, e che le doveva volere bene sempre, alla sua figliola.

E così un giorno che fuori c'è il sole, la Margherita-Lucia e Alfredo fanno una passeggiata giù per la stradina, lui, lei e la sua bicicletta col manubrio scancagnato. Camminano e lei guarda per terra, pensa che son soli, da soli proprio, che è la prima volta. Lei non sa mica.

Poi c'è un albero grande lì, e lui pianta il cavalletto della sua bicicletta col manubrio scancagnato e si avvicina, si avvicina molto, e la Margherita-Lucia indietreggia, lui si avvicina e lei, l'albero è dietro, più indietro non si va, e lui le prende la faccia, adesso, che vuole darle un bacio e però lei non sa mica, gira la testa. La gira, la testa, la Lucia.

Lui si stacca. Dice che lei lo guarda con degli occhi che dentro c'è più mondo che fuori. Dice che lui la guarda con degli occhi che non sa mica, e poi la lascia e prende la bicicletta col manubrio scancagnato, e si avvicina, e le dice che lei non ha capito niente, che se ne torna a casa da sola, che la vita è bella e bisogna saperla godere. Così, le dice, che bisogna saperla godere.

Poi lui e la sua bicicletta col manubrio scancagnato se ne vanno, anche lentamente per la verità, col culo che sculetta sulla bici alta. Ma lei non li vede perchè è piena di lacrime; piange, la Lucia.

Poi dice che si sposano. E per fortuna. Perchè io sono un po' lei e un po' lui e sotto quell'albero, se non era per quell'albero, per il nonno Gnafo, per le lacrime della nonna Lucia, per il sole e per la bicicletta col manubrio scangagnato e andarsene col culo che sculetta sulla bici troppo alta, adesso non c'era la mia nonna Maria, non c'era mio babbo e non c'ero nemmeno io.

mercoledì 20 gennaio 2010

Mind the gap

Londra, day 1
Corre il 10 gennaio 2010, è domenica.



Nella metropolitana londinese (che la prima al mondo è partita da qui, il 10 gennaio, come oggi. Era il 1863) abbiamo le valigie gli zaini la stanchezza la curiosità lo stralunamento che non sappiamo cosa dove, e la mancanza, ché siamo appena arrivate, ché sono tutti zitti e noi invece no; ma anche noi zitte, dopo; succede, a sentir solo la tua voce e il tuo gesticolare e il tuo guardare, e così alla fine stai zitto pure tu. C'è un silenzio.
Mind the gap.
Berlino, vedi, nella u-bahn c'è casino, folla, gente con il cellulare che parla, ride. Sbraccia, pure. Roma, idem. Parigi un po' snob, ma casino uguale. A Valencia è un festino di continuo; ma ci stanno anche andando tutti, sembra, a un festino. Anche i vecchi e le vecchie.
Mind the gap.
Qui zitti, tutti zitti. Un zitto tranquillo, direi. Forse non c'è poi bisogno di parlare sempre e sempre. Il silenzio, nel silenzio, succedono un sacco di cose. Leggono il giornale, scrivono, si guardano attorno, qualcuno dorme, rigorosamente ben seduto con la schiena dritta sul sedile, la testa reclinata. Ma sanno quando svegliarsi? Mah. Sì, direi. Magari a Londra esiste il capolinea di chi non si è svegliato. Magari si trovano tutti lì e fanno colazione assieme, in silenzio. O la cena. O il pranzo. Dipende.
Non si guardano nemmeno l'un l'altro. Forse fa brutto, penso. E io che amo guardare la gente, studiarla, pensare un sacco di cose partendo da piccoli particolari. Dovrò farlo di nascosto.
Mind the gap.

Fa freddo. Cava-metti cava-metti cava-metti il berretto, la sciarpa, i guanti il cappotto allacciato fin su. Non sta nevicando, ma la gente non ricordava un freddo così da trent'anni, e però continua a vestirsi con la magliettina la gonnellina la giacchettina il berrettino le scarpettine. Gli inglesi si vestono ino; la neve è diventata ghiaccio, per la strada si scivola. La città è grigia, ma qui dice che è grigio sempre. Alla fine ci si fa l'occhio, al grigio; e allora, a guardare il cielo, io capisco perchè certi alla mattina al pomeriggio alla sera, a chiedere informazioni lo senti, che c'hanno la fiatella.

Le case sono di mattoni rossi, certe; certe di mattoni bianchi. Le case, qui, sono case inglesi. Ci sono degli uccelli molto inglesi e molto grossi sopra alberi inglesi spogli con dei rami anche loro inglesi, ricci ricci.



Londra è talmente bella che sembra una scenografia, chessò, la scenografia di Aspettando Godot, tipo. Con la neve. Una scenografia bianca. Cioè ti chiedi se sei finito dentro un teatro per sbaglio e nessuno te lo ha ancora detto. Magari tra un po'( pensi) sento un fruscio e arrivano due tendoni neri davanti alla mia faccia e sento partire l'applauso, o i fischi. Perchè c'è che il pubblico inglese non te la manda a dire. Se fai schifo fischia, tira uova pomodori roba. In verità non so com'è adesso; però dice che una volta era così.
Allora, dopo la tenda che mi si chiude sul naso, magari, se mi arriva un pomodoro in testa non mi stupisco, metto in fila, capisco e dico ah, vedi, era una scenografia e io a camminare a vanvera e a guardare col naso per aria, chissà, non devo aver fatto proprio tanto bene la mia parte.

Si gira un po' la città, quel tanto per dare la prima virginale occhiata. Supermercato, si compra il trasformatore. Devi look left per la strada e devi mettere il trasformatore nella presa per attaccare il pc, perchè l'entrata è diversissima, è proprio originale, è tutta un'invenzione britannica.



E poi l'hotel. Si dorme in due per stanza, nel letto matrimonale. Perché ce l'han chiesto: volete dormire separate o insieme? e poi separate era che una sul divano, e allora insieme, nel lettone, come da piccole con mia sorella.

Adesso basta però, è tardi, e domani ci aspetta la prima di quattro giornate campali a cercare di capire il sistema scolastico britannico, e bisogna essere fresche. Non si parla bene l'inglese, sarà fatica, ma dice che in due giorni si fa l'orecchio. E la voglia di capire e sapere è tanta, non sarà un problema, ma bisogna riposare.



E allora ssssh, notte. Notte. Ci sono le sirene fuori, della polizia, e la luce neon che illumina sì, e illumina no, e sì, e no. Io dico che dormiamo nella zona Tarantino. La Mary ride. Sssssh. infatti. ssssssh. E' ora di dormire adesso. E' ora di dormire.

domenica 17 gennaio 2010

Identità

Ovvero: io italiana, tu no.

Quando penso all'identità mi si incasina sempre un po' il cervello perché identità è una di quelle parole cosi' complesse e piene di rimandi che quando provi a spiegarla, tutti i suoi significati è come se fossero i bambini davanti al portone d'uscita della scuola che invece di uscire in fila ordinati fanno il mucchiotto e alla fine riescono solo a stringersi uno contro l'altro, e più spingono più si fa il tappo e non ne esce uno manco a morire.
Poi magari si stappa tutt'un tratto l'ingorgo ed è anche peggio, ché tutto quello che penso dell'identità esce in una volta, e allora succede che son più i concetti che si sbucciano le ginocchia e piangono che quelli che ce la fanno a farsi far valere, e in più ci sei te che mi stai ascoltando che mi fai una faccia come a dire: Ma ti senti bene?

Primo bambino che tenta di uscire:

Chi sono io?

Appunto. Eccola qui, la mia identità. Cioè, partiamo pure dal fatto che sono italiana, ok, sono nata in Italia. Certo. Però ci sono tanti di quei pezzi di provenienza varia dentro di me che in realtà so che la mia identità non è solo italiana. E poi, ma scusa, cosa vuol dire che sono italiana?

Boh.
Ginocchio sinistro sbucciato.

Cattolica? No, io non sono cattolica. Ah no? No. Cos'è, uno solo perchè è italiano, adesso, deve essere cattolico? No, io non lo sono e non lo sono nemmeno i miei figli, almeno per adesso che son piccini, poi, se vorranno, vedranno loro.
Se credo in Dio? Non lo so ancora, cioè, forse sì, non so. Delle volte mi piace pensare che... anche qui ho un po' di confusione, son curiosa, continuo a cercare, studio, mi faccio domande, lascio aperto il campo.
Sì, ma se non sei cattolica, allora, scusa, non hai valori morali; non hai i valori italiani.
Come no? Altroché. Come diceva quell'altro: Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me, tipo. E poi mi riconosco nei valori etici e nelle regole civili della nostra Costituzione. Quella vecchia. Non quella che vogliono scrivere, però. Devo vedere, non so mica se mi piacerà. Se non mi piacerà, non sarò più italiana?

Boh.
Brugola al gomito destro.

Ma sono italiana. Certo, mangio la pastasciutta, oh! Però ho imparato a fare le crêpes, le empanadas, il cous cous. Buono il cous cous. E poi bevo il mate con mio babbo.
Mi piace anche mangiare dal cinese, dal messicano, pure. Oh, anche il kebab.
Vabbè, cosa c'entra, dai, non è che l'identità di uno è quello che mangia, su'.
Giusto giusto.

Slogatura della spalla sinistra.

Ah, ci sono! Sono italiana e quindi la mia identità italiana vuol dire che sono cresciuta in Italia e che degli insegnanti italiani mi hanno insegnato delle cose italiane in italiano e che ho avuto un'educazione italiana e che mi metto vestiti italiani e che parlo italiano.
Ecco, sono italiana e parlo italiano.
E sono uguale agli altri italiani, perchè siamo italiani.
Eeeeh? No no. Mica vero questo. Io non sono uguale proprio a nessuno.
Cioè, sono per certi versi simile ad altri, ma non perchè sono italiani, insomma, tipo una volta parlavo con una mia amica francese e la pensavamo in modo molto simile su certe cose, proprio simile. Invece io e mia sorella siamo diversissime, per dire. Tipo l'acqua e l'olio.

Bozzolo sulla fronte e sangue al naso.

Ma allora, sta' a sentire bene, la tua identità vuol dire che hai un modo di pensare che, tipo, ecco, cresci, trovi lavoro, ti sposi, fai i figli. In media da uno a tre, massimo quattro.
Come no! Certo! Io mi son sposata, nel caso, ho fatto anche dei figli, ma sai le amiche che ho, italianissime, che non ci pensano proprio a sposarsi, e magari hanno già, o vogliono, o faranno figli?! Cos'è, non sono italiane? Maddai!

Sbucciatura su entrambi i palmi delle mani.

Ecco, ecco, ci sono: la tua identità è la cultura italiana, che è quella italiana. Tipo che... che... hai studiato Dante e che tipo... ce l'ho ce l'ho, 'spetta, sei una donna emancipata, cioè lavori fuori casa, vai vestita come vuoi, vai al cinema con le amiche, bevi un caffè da sola al bar al tavolino e non è che per questo sei una donnaccia come in certi paesi che non puoi andare in giro con il capo scoperto, cioè, te puoi anche andare in giro con la minigonna e il tacco alto e non è che, sì, insomma, sei emancipata tu, non è che la gente pensa male, perchè sei italiana e se vuoi puoi anche parlare al bar con un amico che è solo un amico e la gente non pensa che te hai l'amante, perché sei emancipata, sei italiana, un popolo che è sessualmente libero e per niente maschilista, cioè, non è che te sei costretta come donna che la famiglia e i figli e la spesa e le pulizie e stirare e la casa e far da mangiare e tutto grava su di te, cioè...

Incrinatura di una costola.

Ma sì, dai, insomma, la fai lunga con 'sta storia... Basta! essere italiani è una questione di abitudini. L'identità è una questione di abitudini, di usi e cosumi.
Se uno viene a dirmi che non devo più avere le mie abitudini e devo prendere le sue mi fa incazzare, che poi io perdo la mia identità.

Lo sapevo io, alla fine di tutto questo snervante dialogo, è tutta una carneficina di concetti e significati e io non so più chi cazzo sono.

Te lo dico io chi sono.

Io sono io. Lo Straniero, l'Altro, è chi è, e non mi fa nessuna paura, non mi impedisce di essere chi sono, non mi impedisce di continuare a cercare, non mi impedisce di esprimere me stessa o il mio modo di vivere e vedere il mondo. Perché quel modo è in continuo mutamento, in ricerca. L'Altro, da qualsiasi parte provenga, o qualsiasi lingua parli, mi incuriosisce, mi attrae, mi fa venir voglia di di ascoltare la sua storia e di raccontargli la mia, sapere com'è il mondo che ha visto finora, cosa pensa, cosa sogna, com'è il suo sguardo sulle cose, sugli altri, su se stesso, sulla vita.
Io ho me stessa, lui ha se stesso. Io son portatrice della mia storia, lui della sua. E dal nostro incontro se ne potrà immaginare una nuova, magari. E ancora.
E ancora.
E ancora.

Ecco, forse la mia identità è una somma di storie. Della storia che ho scritto fin qui, di quella che scrivo adesso e di quella che mi inventerò domani. Contaminandomi.

sabato 16 gennaio 2010

Molto british

Io, le mie colleghe e le altre colleghe provenienti da diversi paesi europei (Progetto Comenius), abbiamo un appuntamento dal sindaco di Ealing Town, presso la Ealing Town Hall, a Londra, organizzato dalla partner inglese. Le autorità ci aspettano in una delle sale, hanno preparato un buffet di accoglienza, biscottini vari, cioccolata, vino e succo d'arancia. E' tutto molto formale, si saluta in fila che sembra il ricevimento della regina. Oddio, se lo sapevo mi mettevo lo strascico, invece niente, siamo in giro dalla mattina, pantalonacci, stivali e maglione di lana. Fa lo stesso. Pace.

Il signore che ci offre il vino è il tipico englishman all'antica, avrà più o meno sessant'anni, ed è composto, formale, serio, ma di quella serietà che lo capisci subito che è una roba da etichetta, che dentro c'è dell'altro, chessò, una simpatia che trasuda, che la noti. Sarà, penso, e intanto lo osservo senza farmi vedere; mi ispira, l'uomo. Mi chiede se voglio del vino e gli dico con il mio purtroppo ancora stentato inglese che preferisco il succo d'arancia, spiegando che non bevo vino.

...ed eccoti qua, man!

Con perfetto aplomb e senza scomporsi minimamente tranne che per un impercettibile smorfia del labbro e uno sguardo insieme complice e ironico, ha fatto un leggerissimo movimento con il capo verso l'armadio che aveva a fianco e mi ha detto: "There is grappa".

MMMbuah (Ti prego, ho pensato, posso portarti a casa con me? Ti voglio già bene, cacchio).

Dunque: sarei scoppiata in una soddisfatta e sguaiatissima risata, come è da me. Ma in Inghilterra non si può, insomma, non lo so, ma ti guardano come se tu stessi per avere un ictus o se stessi per sputare un polmone. Si preoccupano, giuro. Il massimo della risata che ho visto fare da una ragazza inglese, lì, è durata massimo 2 secondi, leggera e con la mano sulle labbra. Generalmente io rotolo per dei quarti d'ora. No no no no no. Guai. E allora? Dentro, giuro, solo dentro, ho apprezzato e riso tantissimo (avevo avuto la fortuna di toccare con mano la famosa ironia inglese) e così mi sono limitata a sorridere e poi a ringraziare per il mio succo d'arancia.

Giorni prima avevo già perso qualsiasi credibilità come maestra con un bambino di quattro anni perchè osavo avere una cicca in bocca (dovevo pur rifarmi dal gusto del caffé, scusa; e poi mica masticavo con la bocca aperta, dai, non sono così schifosa... eppure). Non capendo cosa avesse da ridire il piccolo bimbo inglese sulla mia cicca, toccandomi le tasche dei pantaloni e facendo spallucce continuavo a dirgli che mi dispiaceva, che le avevo finite e che non ne avevo una per lui. Non avevo capito nulla, io. Lui mi stava sgridando. Altroché. E poi ci si sono messi anche altri bimbi, s'era formato un gruppetto tra il divertito e l'incredulo. Che vergogna.
E in metropolinata parlavamo e gesticolavamo solo noi italiane. I primi giorni. Poi zitte. Per forza. Alla fine ti senti un marziano e allora ti omogeneizzi.

Insomma, potevo io ridere alla mia maniera di fronte all'englishman? Giammai. E allora niente, leggera risata molto molto british.

(Uff però, mai fatta tanta fatica in vita mia, nemmeno la prima volta che ho incontrato mia suocera).

giovedì 14 gennaio 2010

Adesso però io vorrei sapere come

Ho un paio di pantaloni marroni, stivali marroni, un giubbotto nero, un cappello di lana nero calato sulla fronte fino agli occhi che quasi non ci vedo nemmeno più, la sciarpa bianca e un bicchiere di the caldo in mano, perchè fa un freddo blu. Ho uno zaino (non invicta) beige. Cammino in silenzio per i fatti miei, giuro, in silenzio, e guardo le bancarelle di Covent Garden.

Ad un certo punto sento: Ciau Bellllaaa!

Ora due punti ma come? come? ma come cacchio hai fatto, tu, uomo londinese della bancherella che vende magliette con la faccia di Che Guevara e dei Beatles, come cacchio hai fatto a capire che sono italiana? no, dimmelo, dimmelo! COME? COOOMEEEEEE?

Giuro, io ce l'ho messa tutta per non sembrare italiana, avevo addosso più colori io delle piume del cappello di Moira Orfei. La prossima volta che vengo qui tenterò girando con le scarpettine ballerine a piede nudo a 6 gradi sotto zero, avrò un cappottino leggero e un berretto che è una scusa. E... mh, vediamo, ecco sì, indosserò una gonnellina di cotone. In gennaio.

Sarò una perfetta londinese. In coma.

sabato 9 gennaio 2010

Allora vado, eh

Allora si parte. In aereo. Non sono preoccupata, no. Mai avuto paura di volare, e poi ci sono amici sempre pronti a dare ottimi consigli.

Volo poco ma ogni volta è lo stesso, mi piace l'idea del paesaggio sotto, il momento del decollo, sentirsi appiccicare al sedile, l'arrivo, l'applauso dei cacasotto felicissimi di essere vivi.
Non ho paura, anche se son per aria, e tutte le volte faccio lo stesso pensiero: in sala d'attesa, mentre siamo tutti lì che aspettiamo di salire in aereo, guardo i compagni e me li immagino quasi uno per uno durante il disastro, mi piace immaginare come potrebbero reagire. Ovviamente prima di tutto decido chi sopravvive e chi no; poi c'è chi piange, chi si spappola varie parti del corpo, chi viene preso dal panico e guarda magari in giro con aria ebete.
Se ammariamo, mi immagino di far chiacchierate col naufrago vicino, a galla a tamburellare con le dita sul salvagente che ti arriva al naso e a fischiare col fischietto: "senti il mio..." "il mio fischia più forte..." "pensa te, non è vero niente, senti qui cosa son capace col mio..."; così, dialoghi del genere.

L'ultima volta che ho preso l'aereo ho pensato ad un atterraggio di fortuna sulle Alpi, e che restavamo vivi solo io e lo stewart. Unici al mondo, io e lui. Alle medie mi ricordo che una delle offese più grandi che si sentivano dal sesso opposto era: "non farei figli con te nemmeno se rimanessimo vivi in tutto il mondo solo noi due. Guarda, anche se dipendesse da me e te, non me ne fregherebbe niente, morirebbe la specie". (Io però quando lo dicevano a me ho sempre pensato che questo fosse tutto amore. L'amore ai tempi delle medie). E allora, in caso di unici esseri al mondo, ci avrei fatto i figli con lo stewart? Questo, ho pensato. Sì, decisamente sì, mi son risposta.
(Che noia in volo, sempre i soliti giornalini di pubblicità di gioielli. Uff)

Ma la cosa che temo di più e che mi preoccupa veramente in aereo è senz'altro questa: in caso di disastro, in mare o sulle Alpi, soffrirò il freddo?


(Andrò in un altro paese, ci starò sei giorni. Cercherò di non far vedere che sono italiana. Non so, ma è già da un po' che comincia a non piacermi molto l'idea di essere presa per una che è italiana, ché possono sempre pensare che faccio parte di quelli che hanno sbagliato a votare).

giovedì 7 gennaio 2010

C'è un modo

C'è un modo vecchio, che hai, di pensare, c'è un modo vecchio, un modo di inflilare le cose, i pensieri, c'è quel modo che non, che non

che non

c'è quel modo vecchio che è come se per attraversare la campagna tutte le volte facevi quella strada lì, e avanti-indré, avanti-indré, si è formato il sentiero e allora lo imbocchi ma adesso c'è che quel sentiero lì, come dire, quando cambi casa e cerchi sempre la luce a destra, entri, a destra, a destra non c'è, è una casa nuova, a destra non c'è per accendere la luce, e allora quel modo lì, quel sentiero, ecco, per dire, io adesso mi sa che corro di traverso per la campagna, con l'erba a mezza gamba, che mi bagno anche con l'umidità.


Comunque è fatica fare un dialogo interiore con un cervello che vuole sempre l'ultima parola. Poi tocca litigarci.

domenica 3 gennaio 2010

Vita quotidiana

Antefatto 1.
Lui si fa la barba.

Antefatto 2.
Nelle mie operazioni quotidiane, dato l'essere la mia pelle talmente secca da poterci grattuggiare il parmigiano su, mi spalmo dosi inenarrabili di crema. Ripetutamente.

La vicenda.
Si è in cucina, si è finito di mangiare e si sparecchia, si carica la lavastoviglie e roba varia. Ma io oggi ho il sistema nervoso. Lui, tenero dentro, mi si avvinghia e tenta opere di consolazione varia. Poi striscia la sua faccia sulla mia. Una volta. Due volte. Deve averci preso gusto, tre volte.
E poi dice:

- ma quanta crema hai in faccia?! dai che così è come se la mettessi anch'io.
- senti, se ti tira te la do.

E' svenuto.